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livello medio
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ARGOMENTO: ARCHEOLOGIA
PERIODO: XX – XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: archeologia dell’acque, rilievo subacqueo, fotogrammetria, tridimensionalità, geolocalizzazione, GIS
Gli scavi archeologici in mare sono stati in passato spesso irreversibilmente distruttivi (lo scavo del relitto di Albenga da parte di Lamboglia docet). Il concetto moderno è genericamente mirato al mantenimento dei reperti sul luogo del ritrovamento ed alla stesura di una documentazione dettagliata dell’area di scavo. Questa documentazione comprende generalmente una parte iconografica ed una testuale. Va da sè che le rappresentazioni grafiche dei siti archeologici, effettuate con disegni, schizzi, ma anche fotografie, transetti e fotogrammetria, sono essenziali e rappresentano una parte intrinseca di ogni rilievo archeologico sia terrestre che subacqueo.
Ricerca di oggetti metallici sul fondo con un metal detector subacqueo – foto di Petty Officer 1st Class Eric Lippmann, U.S. Navy Defense.gov News Photo 070321-N-5329L-001.jpg – Wikimedia Commons
Di fatto il rilievo sul sito, di qualsiasi tipo sia, è la componente più importante della documentazione, essendo la base per deduzioni successive, e non può essere approssimativo ma quanto più possibile oggettivo. Nel caso dell’archeologia subacquea esistono fattori limitanti maggiori dovuti sia a fattori fisiologici, che limitano la permanenza sul fondo degli operatori, sia ambientali (tempo meteorologico, condizioni di correnti e maree) per cui ogni minuto deve essere sfruttato nel miglior modo possibile.
Breve storia di un lungo cammino
Gli scavi archeologici si basano sul concetto di unità stratigrafiche, ereditato dalla geologia e poi formalizzato per l’archeologia da E.C. Harris, legate da relazioni geometriche (tridimensionali) collegate alle diverse tipologie presenti (fondale, sedimento) ed a fattori temporali, fattori fondamentali per inquadrare la comprensione dello scavo archeologico. Nel campo dell’archeologia subacquea, per ovvi motivi, i metodi grafici terrestri (piani orizzontali, tagli verticali) non potevano essere adattati in modo semplice in quanto erano basati su strumenti ottici (come i teodoliti) non utilmente impiegabili sott’acqua. Metodi tradizionali, come tracciare angoli retti in orizzontale, era possibile, ma non erano adattabili allo scavo di un carico di anfore disperse su un fondale irregolare.
I primi esperimenti di fotogrammetria subacquea per l’archeologia iniziarono negli anni Sessanta quando il Naval Oceanographic Office di Washington eseguì il primo esperimento di fotogrammetria subacquea su un sottomarino sotto la direzione di Joseph Pollio.
Da allora, l’interesse per queste tecniche per l’archeologia continuò a crescere. Nel 1964, il sottomarino Asherah, supportato dalla National Geographic Society, effettuò le prime fotografie stereoscopiche a 35 metri di profondità sul relitto bizantino di Yassi Ada 2, utilizzando due telecamere sincronizzate. Con le esperienze maturate furono eseguite, nel 1972, le prime indagini fotogrammetriche del relitto romano della Madrague de Giens, da parte dell’archeologo francese J.C. Négre, utilizzando delle strutture metalliche fisse e scorrevoli.
Nel 1984, nelle stesse acque di Marsiglia, altri archeologi subacquei francesi furono in grado di utilizzare strumenti più leggeri, in particolare su un antico naufragio carico di blocchi di calcare destinati per la costruzione dei bastioni della antica città di Massalia. Per evitare di dover utilizzare pesanti ed ingombranti supporti furono utilizzati due cavi tirati parallelamente all’asse longitudinale del sito, e livellati per fungere da riferimenti di base per le foto. Muovendosi lungo questi cavi, un triangolo metallico graduato forniva la scala metrica mentre i segni di indice indicavano quella verticale.
Nel 1984, un supporto armato con due fotocamere Nikonos (28 mm) fu collegato tramite un filo di nylon a questo triangolo graduato. Nel 1985 le fotocamere furono sostituite con due Hässelbläd (con correzione di 50 mm). Questi due supporti per fotocamera (il primo in plastica e il secondo in alluminio) avevano un assetto positivo e fornivano una perfetta stabilità per cui il metodo risultò essere efficiente, poco costoso e veloce, richiedendo meno di due ore per l’allestimento. Ma il salto di qualità arrivò con il digitale.
L’archeologo subacqueo Alexis Catsambis si prepara a immergersi ed il collega archeologo George Schwarz gli consegna una videocamera subacquea – Foto della Marina degli Stati Uniti dallo specialista della comunicazione di massa di 2a classe Kenneth G. Takada – Fonte Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti 100806-N-9671T-023 (4882270631).jpg – Wikimedia Commons
L’arrivo del digitale
Grazie alle innovazioni tecnologiche della fine del XX secolo, legate all’evoluzione delle tecniche di fotografia digitale e all’elaborazione dei dati anche in realtà virtuale, hanno consentito di valorizzare i dati da piattaforme informatiche basate su tecnologie GIS (Geographical information systems). In questi ultimi anni si è osservato un ulteriore passo avanti con l’impiego di tecniche di rilievo 3D (tridimensionale) che ormai si applicano in tutti i domini scientifici.
A supporto delle operazioni di rilevamento sul campo vengono utilizzati dispositivi informatici portatili (semplici tablet o notebook) che possono essere collegati in wireless con il laboratorio di riferimento – come sperimentato tra i primi dall’Area di archeologia medievale dell’Università di Siena – dando origine ad un nuovo approccio, da alcuni definito come tele-archeologia, che consente di ridurre i tempi tra la fase di acquisizione dei dati e quella di post elaborazione. Questa tecnologia presto sarà disponibile anche sott’acqua utilizzando sistemi di trasmissione acustica dei dati verso sistemi ormeggiati che fungono da ripetitori (relay) verso l’esterno. Inoltre, l’impiego di robot subacquei autonomi (UUV) porterà il braccio virtuale dell’Uomo a profondità non accessibili fisicamente a dei subacquei restituendoci testimonianze del passato altresì non scopribili.
Metodologia di base
L’archeologo, ma vale anche per gli altri ricercatori, considerano due aspetti: l’artefatto e l’area in fase di escavazione (parte del fondale marino di interesse) che può essere rappresentata matematicamente da un modello digitale del terreno (DTM). Basandoci sulla conoscenza delle misure sull’artefatto, possiamo quindi calcolarne le dimensioni e la sua posizione nello spazio. Per quanto riguarda il rilievo del terreno, si possono utilizzare metodi di rilevamento planimetrico ed altimetrico del terreno, che impiegano immagini fotografiche dell’ambiente per ricavare la forma generale dell’immagine dell’oggetto fotografato.
dal workshop “Fotogrammetria nell’archeologia subacquea” come parte del progetto Bluemed, Dubrovnik, 25 – 31 agosto 2019
Con queste tecniche si possono ottenere modelli tridimensionali, partendo da immagini fotografiche bidimensionali, utilizzando dei procedimenti automatizzati. Questa tecnologia viene ormai utilizzata in svariati ambiti: dalla topografia, architettura, geologia, medicina, grafica e naturalmente nella archeologia. La disponibilità di software specifici, tra l’altro di basso costo e semplici da usare, da la possibilità di valorizzare i dati raccolti da una strumentazione spesso composta solo da una macchina fotografica digitale. Questi possono essere resi disponibili anche da un personal computer di medie prestazioni.
L’elaborazione normalmente avviene attraverso quattro fasi distinte e successive:
– Structure-from-motion (SFM) e Multiview Stereo Reconstruction (MVS) dove, in base alla geometria di presa delle foto, viene costruita una nuvola di punti densa, detta dense point cloud. In pratica un dato grezzo, su cui si baseranno le elaborazioni successive ottenuta da una precedente nuvola primaria (meno densa) tramite processi d’interpolazione numerica.
– Mesh reconstruction
in questa fase, la nuvola densa di punti viene trasformata in una superficie continua, costituita da poligoni, i cui vertici sono i punti della nuvola precedente.
– Colouring
Il terzo passo è la colorazione che viene applicata sulla superficie continua secondo due processi alternativi:
a. Il color-per-vertex, dove il colore della dense point cloud viene traferito ai poligoni della mesh.
b Il texture mapping, in cui le immagini utilizzare nel rilievo sono utilizzate per colorare i poligoni stessi.
– Modelling
a questo punto, attraverso una misura (distanza) di riferimento, il modello viene messo in scala e si ottiene l’immagine tridimensionale finale.
Va da sé che il poter ottenere rappresentazioni tridimensionali di un sito subacqueo fornisce un importante valore aggiunto agli archeologi subacquei che possono quindi integrare l’artefatto in un contesto più completo, esaminabile da più direzioni. Un esempio classico è il relitto di una nave che può essere ricostruito in tutte le sue parti, ottenendo visioni tridimensionali altrimenti non realizzabili. Queste tecniche possono essere applicate anche ad oggetti minori. Il dettaglio è ovviamente legato alla qualità delle immagini scattate. Cosa ci riserverà il futuro?
in anteprima immagini sidescan di un fondale marino piuttosto … accidentato – foto di proprietà
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con numerosi Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Atlantide e della Scuola internazionale Subacquei scientifici (ISSD – AIOSS).
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