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Elementi diagnostici delle anfore

tempo di lettura: 5 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: ARCHEOLOGIA DELLE ACQUE
PERIODO: V – I SECOLO a.C.
AREA: MAR MEDITERRANEO
parole chiave: anfore, archeologia, Dressel
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Come spesso abbiamo scritto e commentato l’archeologia e il mestiere dell’archeologo non si devono inquadrare come la ricerca del tesoro perduto. Anche se i mass media tendono ad accreditare questo concetto non esiste nulla di più sbagliato. L’archeologia è scienza esatta e consta nello studio di dati, sia di carattere documentale che derivanti dall’analisi dei reperti, con lo scopo di ricostruire la storia attraverso le informazioni così ottenute. Il passaggio dell’uomo su un territorio ha sempre lasciato, e sempre lascerà, tracce significative. 

Nel caso dell’archeologia subacquea l’indagine si sposta in ambienti potenzialmente ostili come mare, fiumi, laghi, stagni e paludi ma segue le stesse logiche e le stesse metodiche. Oggi la ricerca deve essere progettata e mirata, non basata sulla casualità. Occorre ricostruire il paesaggio antico attraverso mille indicatori e vedere il luogo che vogliamo indagare con gli occhi di chi lo vide nel passato.  Individuare le esigenze di coloro che navigarono quel tratto di mare, le loro inclinazioni commerciali, le necessarie risorse al sostentamento degli equipaggi delle imbarcazioni, sono azioni che servono a comprendere i comportamenti dei nostri progenitori. Si potrà così immaginare le loro scelte, delineando e restringendo di conseguenza il campo della ricerca. Se si effettua una prospezione in mare sul tracciato di una possibile rotta di avvicinamento o di allontanamento da un antico approdo, la ricerca deve essere mirata a ritrovare segni di antichi naufragi o di alleggi. 

Con il termine alleggio si intende il gettare fuori bordo elementi del carico o delle dotazioni di bordo per alleggerire l’imbarcazione ed impedire o allontanare il momento del naufragio ed il conseguente affondamento. Pratica questa necessaria quando magari inavvertitamente e per scarse conoscenze il pilota della nave la conduceva su scogli affioranti sconosciuti o un’onda di traverso imbarcava acqua, tanto da compromettere la stabilità dell’imbarcazione. Dopo che la ricerca, le prospezioni, i rilevamenti strumentali hanno evidenziato una presenza antropica, ovvero qualcosa che l’Uomo ha creato e poi per ragioni diverse abbandonato nel luogo del ritrovamento, uno dei primi obiettivi che si pone l’archeologo è comprendere la provenienza, l’uso e la datazione del reperto.  Si indagherà la tecnica costruttiva e magari, se si tratta di un elemento del carico di una imbarcazione, anche la destinazione finale del carico stesso. Quando si riesce a localizzare sul fondo del mare o di un lago, in uno stagno o in un fiume un reperto antico gli interrogativi a cui occorre rispondere sono: che oggetto è? A cosa serviva? Nel caso di contenitori: cosa trasportava? Dov’è stato prodotto? A chi era destinato? Queste sono le domande che l’archeologo si pone. La risposta costituisce una piccola ma indicativa informazione utile alla ricostruzione dell’evento che ha lasciato quella testimonianza in quel luogo.

Come rispondere però a quelle domande?
In archeologia uno strumento fondamentale e utilissimo per definire date e provenienze sono gli studi sulla ceramica. Negli scavi stratigrafici (che smontano uno strato alla volta secondo l’ordine con cui si è formato) le cronologie studiate sulle varie tipologie ceramiche (greca a figure rosse, greca a figure nere, le varie sigillate, le africane, le ceramiche da mensa e da cucina ecc.) consentono di definire il luogo di produzione, il prodotto trasportato, il luogo di destinazione della merce, l’epoca di produzione e d’uso. Anche le anfore, i contenitori per eccellenza dei trasporti marittimi, fino all’avvento di botti in legno e sacchi di juta, ci forniscono queste informazioni. Sappiamo ad esempio che le Dressel 1, destinate al trasporto del vino, nelle loro varianti A, B e C sono state prodotte in centro Italia fra la metà del II sec. a.C. e la metà del I sec. a.C., anche se esistono modelli imitati provenienti dalle regioni della Narbonese, Tarraconese e Betica (ma di queste comunque se ne riconoscono le caratteristiche che le distinguono dalle originali). Così come conosciamo la storia dell’anfora Dressel 20: adibita al trasporto dell’olio dalla zona di produzione della Betica, fu diffusa fra la metà del I sec. d.C. a tutto il III secolo per poi venir soppiantata dalla più leggera Dressel 23. O ancora la conosciutissima Keay LII prodotta in Calabria e Sicilia dal IV al VII secolo d.C., per il trasporto del vino. 

Quando ci imbattiamo nei resti di un naufragio o di un alleggio cosa possiamo trovare?
Se si tratta di un relitto antico possiamo trovare soprattutto frammenti anforari. La corretta terminologia per definire le parti che costituiscono un anfora definisce:
orlo = la parte superiore del collo, solitamente più spessa, che irrobustisce l’imboccatura del contenitore.
ansa = parte con cui si movimentava l’anfora. Di solito le anse sono due e servono appunto a fornire un appiglio per lo spostamento dell’anfora.
collo = parte superiore del vaso, solitamente ristretto su cui si innesta l’orlo e dove spesso è saldata la parte superiore dell’ansa.
carena = la carena definisce la piega decisa nel corpo dell’anfora allo scopo di fornire una solidità dell’insieme.
pancia o corpo = è la parte dell’anfora che costituisce il contenitore vero e proprio, ha forma spesso tondeggiante e modella il contenitore in forme definite.
piede o puntale o fondo = è solitamente la forma rastremata che oltre che a irrigidire l’insieme consente all’anfora di essere infissa nella sabbia o nel terreno oltre che permettere il suo carico in pile sovrapposte in una stiva.

Le anfore erano prodotte attraverso la lavorazione al tornio o colombino (una tecnica antichissima di creazione ceramica) con una serie di elementi che, una volta essiccati fino ad avere la consistenza del cuoio, venivano assemblati in un unico esemplare prima della cottura.

Sul corpo venivano fissati il collo e quindi l’orlo, aggiungendo subito dopo le anse. Sul fondo dell’anfora si montava il puntale e quindi si metteva l’anfora così montata nel forno per la cottura. Quando lo scafo di un relitto raggiungeva il fondo dopo il naufragio, un breve periodo di tempo era necessario per stabilizzare il sito. Lo scafo in legno si disgregava in pochi mesi e il carico di anfore si spargeva sul fondo a creare una sorta di tumulo. I frammenti di anfore frantumate fluitavano intorno al sito in tutto il perimetro di giacitura trasportate dalle correnti. Alcuni di questi frammenti venivano nascosti da quelle che gli archeologi chiamano trappole morfologiche. Questi residui possono essere definiti diagnostici, ovvero utili a dare informazioni sulle domande che ci siamo posti, in quanto tipici del tipo di anfora a cui appartenevano. Un orlo di Dressel 20 è completamente diverso dall’orlo di una Dressel 1. Così come i puntali delle due tipologie anforarie sono diversi: tozzo e corto quello della Dressel 20 mentre alto e importante quello della Dressel 1.

Anche le anse sono elementi diagnostici che possono aiutarci nel riconoscere una tipologia anforaria. Ad esempio, le Dressel 2-4, che ebbero una diffusa produzione centro italica fra la metà del I sec. a.C. e la fine del I sec. d.C., hanno anse bifide (due elementi accostati e uniti a formare una specie di ∞ in sezione) e piegate con un angolo secco. Un altro elemento particolare è nella Pelichet 47, un anfora prodotta in Francia fra la metà del I sec. d.C. e fino al III sec. d.C. impiegata per il trasporto del vino caratterizzata da una forma del puntale piatta per consentire all’anfora di essere caricata sui carri. 

La Desalinizzazione
Per una quanto più corretta interpretazione del reperto occorre lasciare desalinizzare il pezzo in acqua dolce, frequentemente sostituita, successivamente si procede con una pulizia leggera e l’asportazione di eventuali incrostazioni calcaree, usando una soluzione a base acida con aceto. Dopo l’asciugatura naturale si effettua il disegno tecnico del reperto, che consente di avere la sezione dello stesso, utile al confronto con la bibliografia disponibile per il riconoscimento del reperto nella sua forma completa. Questo ci consente di saperne la classificazione, la provenienza, il prodotto trasportato o l’uso a cui era destinato, e nel caso siamo fortunati anche altre informazioni derivanti da bolli impressi nell’argilla o tituli picti (scritture con vernice apposte all’oggetto dopo la cottura) ad indicare nomi di schiavi che hanno lavorato, prodotto trasportato, figlina che ha fabbricato l’oggetto, nome del proprietario della figlina e dell’imbarcazione deputata al trasporto. Una bella messe di saperi da un semplice “coccio”, vero?

Ivan Lucherini


foto di copertina: 
campo scuola in Calabria – photo credit Ivan Rullo

 

  

 

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