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Tsunami, la furia della natura

tempo di lettura: 5 minuti

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livello elementare 
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ARGOMENTO: OCEANOGRAFIA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: Oceanografia, tsunami
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Giappone nordorientale, 11 marzo 2011, ore 14:46. Il cielo è una lastra color grigio, della stessa consistenza del piombo fuso; ha quasi un aspetto funereo quel giorno. Lo tsunami è in arrivo … Improvvisamente, in mare, il fondale sussulta; un blocco di crosta terrestre lungo 430 chilometri si sposta verso est, con traslazioni orizzontali che in alcuni punti raggiungono i 24 metri. Dopo cinque minuti dal termine del terremoto, Miki Endo, un’impiegata comunale di Sendai, preme un bottoncino rosso e accende il microfono; sembra un film di 007, ma non è finzione, è realtà.

Gli altoparlanti della città lanciarono l’allarme tsunami, e migliaia di persone salirono sui tetti, ma non basta: la gigantesca onda di maremoto, lo tsunami, investì la città con i suoi quindici metri di altezza. L’onda nera carica di detriti, sabbia e fango travolse la costa e tutto quello che trovò sul suo percorso. Il conto di “mastro beccaio” raggiunse i ventimila morti, senza contare i cinquecento chilometri di costa devastata.

Il Giappone è il paese più preparato per affrontare terremoti e tsunami, come quello occorso l’11 marzo, di magnitudo 9 avvenuto a 130 chilometri dalla costa giapponese; in parole povere lo stesso sisma avrebbe causato molta più distruzione se fosse avvenuto in un’altra zona del mondo. Casi di tsunami se ne sono registrati tanti, basti ricordare quello indonesiano del 2004, dove perirono 230.000 persone.

Da geologo ricevo più o meno sempre la stessa domanda: sono prevedibili i terremoti? La risposta è NO! Non lo sono. Diffidate di tutti gli pseudo-geologi, e/o gli pseudo-tecnici, che affermano il contrario.

tsunami thailandiqa

La maggior parte dei sismologi afferma che ogni anno avviene uno tsunami di importanza rilevante, molti scienziati ritengono che maremoti storici, come quello avvenuto in Grecia 3.500 anni fa, abbia addirittura cambiato il corso della storia dell’uomo. Lo storico greco Tucidide, nel 430 a.C., fu il primo ad intuire una connessione tra terremoti e onde di tsunami. Il terribile tsunami di Lisbona, avvenuto nel 1755, pare abbia addirittura modificato l’ottimismo  del pensiero occidentale dell’epoca. 

Come nasce uno tsunami? 
Innanzitutto, la parola Tsunami deriva dal giapponese e significa “onda di porto”, o “grande onda”. Gli tsunami non hanno nulla a che vedere con le onde di marea, né con il comune moto ondoso, neppure quello derivato da uragani tropicali e da grandi tempeste polari (con onde enormi). Le onde di tsunami, o di maremoto, sono provocate da movimenti di masse rocciose che compongono la crosta terrestre, naturalmente sommersa dalle acque, in determinate zone del globo. Queste zone sono dette di subduzione, dove cioè una porzione di crosta terrestre subduce rispetto all’altra; immaginate di spingere due materassi, uno contro l’altro, uno s’infilerà sotto l’altro, che salirà. Lungo queste zone di subduzione si formano enormi faglie, che sono punti cruciali dove si accumula energia.

Un terremoto, che sia sottomarino o terrestre, è sostanzialmente un rilascio improvviso di energia accumulata; immaginate di prendere un bastone di legno con le mani e di piegarlo con il ginocchio, il legno si piegherà sino a un certo punto (accumulo di energia) per poi spezzarsi con un sonoro crack: quello sarà il terremoto. Quando però avviene in mare, l’intera colonna d’acqua sovrastante il fondo, risentirà della sollecitazione di energia proveniente dal basso, come se si colpisse un secchio d’acqua sul fondo, sicuramente vedreste una serie di cerchi concentrici sempre più ampi. È stato notato che spesso, ma non sempre, il mare lungo la costa si ritira, lasciando esposti centinaia di chilometri di costa prima dell’arrivo dell’onda anomala.

Dopo la prima onda possono susseguirsi anche altre onde gigantesche, che flagellano la costa per ore. L’onda di tsunami in mare aperto è innocua, essendo alta anche pochi centimetri, a volte; tuttavia viaggia a velocità incredibile, dell’ordine di 500 chilometri orari, talvolta anche 1000, con lunghezze d’onda di centinaia di chilometri (tra una cresta e l’altra), con un periodo di anche dieci minuti tra un’onda e l’altra. Lo tsunami diventa però pericoloso in prossimità della costa, dove il fondale si rialza. Inoltre queste onde anomale possono viaggiare per migliaia di chilometri e attraversare interi oceani.

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Ricostruzione dell’altezza dell’onda anomala del 2004 durante la propagazione nell’oceano Indiano e in parte dell’Atlantico meridionale.

Lo tsunami dell’11 marzo 2011 colpì, specularmente, anche la costa della California, con danni assenti naturalmente, tuttavia un uomo fu travolto dall’onda ed affogò. Lo tsunami indonesiano del 26 dicembre 2004, provocò vittime un po’ ovunque nell’oceano Indiano: uccise 60.000 persone in India, nello Sri Lanka, e colpì mortalmente molti paesi dell’Africa orientale. Dopo questa catastrofe senza precedenti (documentata almeno) diversi stati hanno avviato una collaborazione per installare un sistema di rilevazione degli tsunami; tali sistemi funzionano con la misura delle variazioni di pressione provocate dal passaggio dell’onda anomala in oceano vicino alla boa di rilevamento. Prima del 2004 non c’era nemmeno una boa di questo tipo in tutto l’oceano Indiano; ma solo sei nel Pacifico. Attualmente, negli oceani del mondo, vi sono una sessantina di boe.

Tuttavia, non è detto che il sistema delle boe sia infallibile; durante il terremoto giapponese dell’11 marzo 2011, le boe segnalarono una magnitudo di 7.4 Richter. Le analisi successive calcolarono una magnitudo di 9.

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Una delle sessanta boe posizionate negli oceani per il rilevamento degli tsunami. Questa appartiene alla rete di allarme dell’Australia.

Ciò significa che con una magnitudo di 7.4 i giapponesi allertati attendevano un’onda anomala di altezza pari a circa tre metri (al di sotto del frangiflutti anti-tsunami alto cinque metri); con una magnitudo 9; invece lo tsunami raggiunse un’altezza di 15.5 metri. Questo errore di calcolo strumentale costò la vita a migliaia di persone che, con una corretta informazione, sarebbero potute scappare più lontano, verso le alture dell’entroterra.

Strano a dirsi, ma la maggior parte dei geologi giapponesi non considerava la regione di Sendai particolarmente a rischio da un punto di vista sismico; agli inizi del duemila un gruppo di geologi nipponici aveva effettuato uno studio (pubblicato nel 2001) su alcuni depositi sabbiosi e argillosi dove si distinguevano chiaramente delle tsunamiti (depositi sedimentari da tsunami), appartenenti a maremoti molto potenti occorsi nella regione di Sendai con una cadenza pari a circa 900 anni in un arco temporale di circa 4.000 anni. Per ironia della sorte lo studio terminava con un monito degli autori sulla zona e sulla pericolosità che correva.

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Depositi sedimentari dove è possibile distinguere un livello di tsunamite, appartenente a un grande terremoto del passato.

Altri studi del genere sono stati portati avanti lungo le coste occidentali degli Stati Uniti d’America, nelle Filippine, nelle Sonda e in Indonesia. I risultati sono allarmanti: con un range temporale che varia tra i 200 e i 700 anni di cadenza, queste zone, affermano i paleo sismologi, sono state sistematicamente colpite da grandi onde di maremoto. Purtroppo non si può affermare, per una data zona, se un tale tsunami avverrà fra trenta secondi o trent’anni.

Che si può fare? Niente! Siamo sette miliardi sulla Terra e abbiamo volutamente insediato le zone costiere di tutto il mondo, creando una situazione senza uscita per miliardi di persone. Ne stiamo pagando già le conseguenze.

Aaronne Colagrossi

 

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