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Eutrofizzazione e zone morte: l’importanza di far respirare gli oceani

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: ECOLOGIA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: eutrofizzazione, zone morte, dead zone

 

Circa la metà della produzione di ossigeno sulla Terra proviene dagli oceani, grazie al contributo dal plancton oceanico ovvero da quelle piante, alghe e batteri alla deriva che restituiscono una percentuale di ossigeno maggiore di quella prodotta da tutte le foreste pluviali tropicali sulla terraferma messe insieme. In realtà il calcolo non è così semplice in quanto le quantità di fitoplancton cambiano costantemente; ultimamente, grazie alle immagini satellitari, è possibile monitorare la sua fotosintesi e stimare i cambiamenti stagionali in risposta ai cambiamenti nel carico di nutrienti dell’acqua, nella temperatura e in altri fattori. Questi studi hanno dimostrato che la quantità di ossigeno, in luoghi specifici, può variare notevolmente con l’ora del giorno e con le maree. Questa grande quantità di ossigeno viene consumata dalla vita marina che, come gli animali e le piante terrestri, usa l’ossigeno per la respirazione cellulare. Va compreso che questo prezioso elemento per la nostra vita viene consumato anche dalle forme di vita in decomposizione.

Quando le fioriture algali muoiono, il processo di decomposizione utilizza l’ossigeno più velocemente di quanto possa essere reintegrato e questo crea aree con concentrazioni di ossigeno estremamente basse ovvero in ipossia, chiamate zone morte, perché i livelli di ossigeno sono troppo bassi per sostenere la maggior parte della vita marina. Per questo motivo, i Centri nazionali oceanografici costieri di tutti i Paesi monitorano queste situazioni per valutare gli effetti sugli ecosistemi oceanici e sull’ambiente umano (in particolare sanitari e economici).

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eutrofizzazione su Eunicella – photo credit andrea mucedola

Perché si verificano le zone morte?
L’aumento eccessivo di sostanze nutritive, come fosforo e azoto, provoca la proliferazione delle forme viventi in un processo chiamato eutrofizzazione. A livelli normali, questi nutrienti alimentano la crescita degli organismi acquatici, ma quando questi si sviluppano senza controllo si può generare un grave danno all’ambiente in quanto le fioriture algali impediscono di fatto alla luce di penetrare la superficie dell’acqua e riducono l’assorbimento dell’ossigeno da parte degli organismi sottostanti.


Questo articolo ti interessa? Su OCEAN4FUTURE, il portale del Mare e della Marittimità, troverai numerosi articoli di scienze del mare per conoscere meglio gli oceani ed i loro abitanti. Se hai suggerimenti o domande puoi lasciarci un commento in calce all’articolo oppure scriverci alla nostra mail: infoocean4future@gmail.com

Gli eventi eutrofici sono in genere causati dal rapido aumento delle pratiche agricole intensive, delle attività industriali e della crescita della popolazione. Questi tre processi antropici mettono in circolo grandi quantità di fertilizzanti entrando nella nostra aria, suolo e acqua. E’ stato calcolato che le attività umane emettono quasi il doppio di azoto e il triplo di fosforo rispetto alle emissioni naturali.
Queste emissioni sono diversificate: i Paesi più sviluppati hanno talvolta un uso massiccio di letame animale e fertilizzanti in agricoltura per cui le aree acquatiche in loro prossimità sono maggiormente affette.

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Ricostruzione aree eutrofiche mediterranee tramite HEAT – Fonte EEA
HEAT+ classifications of ‘eutrophication status’ in the Cental- and the Eastern Mediterranean Seas — European Environment Agency (europa.eu)

In pratica, il deflusso di queste sostanze dai grandi campi agricoli, entra nei ruscelli e attraverso i fiumi può raggiungere il mare anche a centinaia di chilometri di distanza. Anche i Paesi in via di sviluppo dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa contribuiscono in quanto le acque reflue, provenienti dalle fognature e dall’industria, non sono trattate. Dalle vie d’acqua ma anche dalle fonti atmosferiche che viene poi ri-depositato sulla terra e sull’acqua attraverso il ciclo dell’acqua con la pioggia e la neve.

A seguito dell’eutrofizzazione i sistemi costieri sono quindi maggiormente a rischio di sviluppare ipossia, a causa di livelli elevati di nutrienti, fioriture algali dannose e cambiamenti negativi nella comunità bentonica. Le aree problematiche. Le maggiori concentrazioni di aree problematiche si trovano lungo la costa occidentale dell’America centrale e meridionale e lungo le coste della Gran Bretagna e dell’Australia. Ci sono 233 aree di preoccupazione in tutto il mondo.
Poiché le alghe dominano l’ecosistema acquatico, le fioriture algali vengono talvolta chiamate impropriamente “maree rosse” o “maree marroni”, a seconda del colore dei loro componenti (per lo più cianobatteri) riuniti in colonie di forme diverse da tondeggianti a filamentose. Nonostante siano chiamati impropriamente alghe blu, sono in realtà un phylum di batteri fotosintetici che possiedono pigmenti colorati come la ficocianina, che dona a molti cianobatteri la caratteristica colorazione blu, o la ficoeritrina (ad esempio nei casi della spirulina e della Oscillatoria rubescens) in cui la colorazione è rossa da cui maree rosse. Queste fioriture algali possono essere tossiche per l’organismo umano in quanto possono entrare nella catena alimentare; ad esempio i molluschi, come le ostriche ed i mitili, sono animali filtratori che, filtrando l’acqua, assorbono i microbi associati alla fioritura delle alghe. Molti di questi microbi sono tossici per le persone e le persone possono ammalarsi o addirittura morire per avvelenamento da molluschi. Lo stesso vale per le altre forme animali che, morendo, riducono la quantità di cibo per altre forme di vita.

I danni economici possono essere elevati come nel caso della acquacoltura; nel 1998, un evento di marea rossa distrusse il 90% dell’intero patrimonio ittico di Hong Kong, provocando una perdita economica stimata di 40 milioni di dollari. Per fortuna le fioriture algali di solito muoiono subito dopo la loro comparsa per la mancanza di ossigeno ma lasciano aree putrefatte speso riversati sugli arenili. Gli scienziati hanno identificato 415 zone morte in tutto il mondo ma le aree ipossiche sono aumentate drammaticamente negli ultimi 50 anni, da circa 10 casi documentati nel 1960 ad almeno 169 nel 2007. La maggior parte delle zone morte del mondo si trovano lungo la costa orientale degli Stati Uniti e le coste degli Stati baltici, del mar Nero, del Giappone e della penisola coreana.

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Fioritura algale a Chesapeake Bay, Washington DC, causata da uno sviluppo eccessivo di cianobatteri
Algae bloom in Reflecting Pool, Washington, DC. 2007 Potomac River, Chesapeake Bay watershed. USEPA photo by Eric Vance (13765962984).jpg – Wikimedia Commons

Il Golfo del Messico ha una zona ipossica stagionale che si forma ogni anno a fine estate. La sua dimensione varia da meno di 5.000 a circa 22.000 chilometri quadrati. La preoccupazione per la sua crescente dimensione ha portato alla formazione della Task Force sui nutrienti dei bacini idrografici del fiume Mississippi e del Golfo del Messico nel 1997. La sua missione è ridurre la media consecutiva quinquennale della zona morta del Golfo del Messico a meno di 5.000 chilometri quadrati. Il Mar Baltico ospita sette delle dieci zone marine morte più grandi del mondo a causa dell’aumento dei fertilizzanti agricoli e delle acque reflue che ha accelerato il processo di eutrofizzazione. Parallelamente la pesca eccessiva del merluzzo ha aggravato il problema in quanto questo pesce mangia una piccola specie ittica simile alle aringhe che mangia lo zooplancton microscopico, che a sua volta mangia le alghe. Meno merluzzo comporta quindi più alghe e meno ossigeno. Il Mar Baltico è diventata la prima “macroregione” presa di mira dall’Unione Europea per combattere l’inquinamento (il 99% delle aree valutate è affetta da eutrofizzazione), le zone morte, la pesca eccessiva e le controversie regionali. L’UE sta coordinando la strategia per il Mar Baltico con otto paesi membri dell’UE che si affacciano sul Mar Baltico: Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Lettonia, Lituania, Polonia e Svezia.

Secondo la valutazione dell’Agenzia Europea dell’ambiente (AEA), circa 563.000 km2 (il 23%) di queste aree presentano problemi di eutrofizzazione. Altre aree critiche sono il Mar Nero (53%), l’Atlantico nord-orientale (7%) e alcune zone costiere del Mar Mediterraneo (12%) per lo più vicino a coste densamente popolate o bacini che sono a valle di attività agricole come il fiume Po. Le perdite economiche totali annuali derivanti dalla pesca, dal turismo e da altri settori sono state stimate a 500 milioni di dollari (UNDP, 2012).

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Zone minime di ossigeno (OMZ) (blu) e aree con ipossia costiera (rosso) nell’oceano mondiale (adattato dopo Isensee et al., 2015; Breitburg et al., 2018; compresi gli effetti dell’ossigeno da Keeling e Garcia, 2002; Diaz e Rosenberg, 2008; Carstensen et al., 2014). – Fonte Global Ocean Oxygen Network, Breitburg, D., M. Gregoire, K. Isensee (eds.) 2018. The ocean is losing its breath: Declining oxygen in the world’s ocean and coastal waters. IOC-UNESCO, IOC Technical Series, No. 137 40pp. (IOC/2018/TS/137)
UNESCO global ocean deoxygenation map.png – Wikimedia Commons

Nell’arco di vent’anni, il Global Environment Facility (GEF), un organismo internazionale composto da un’assemblea di 185 stati membri, ha investito 97,70 milioni di dollari e sono stati cofinanziati ulteriori 288,76 milioni di dollari in misure di riduzione dell’inquinamento mirate a invertire un’enorme zona morta di 40.000 km2 che si era formata nella piattaforma nordoccidentale del Mar Nero, riducendo le emissioni di azoto e fosforo rispettivamente del 20% e del 50% negli ultimi 15 anni, e raddoppiando il numero di specie bentoniche tra il 1980 e il 2000 (STAP, 2011). Si ritiene che, con un maggior controllo delle immissioni, ci possano essere possibilità di recupero. Attualmente sono 13 i sistemi costieri in fase di miglioramento in tutto il mondo. Come sempre dipende solo da noi …

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in anteprima immagine NASA  zone morte golfo del Messico – public domain File:Gulf dead zone.jpg – Wikimedia Commons

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