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“Marine rubbish: Una sfida da condividere”, prodotto dall’Istituto di Scienze Marine del CNR (ISMAR)

tempo di lettura: 4 minuti

C’era una volta un pezzo di plastica, finito per qualche motivo in mare. Per 1000 anni viaggiò, finì su spiagge lontane, più volte mordicchiato da pesci e tartarughe, scaldato dal sole di altri mari, fino a che …”

Comincia così il documentario “MARINE RUBBISH: Una sfida da condividere”, prodotto dall’Istituto di Scienze Marine del CNR (ISMAR), da anni impegnato in progetti che coniugano ricerca, educazione e divulgazione scientifica ed ambientale e,  in questo caso, incentrati sul problema dell’inquinamento dei mari da macro e micro plastiche.

Questo documentario racconta, in maniera accessibile a tutti, le ricerche effettuate all’interno di ISMAR (ma anche di altre Istituzioni o Università) nel Mar Mediterraneo e, in particolare, nella zona compresa fra Toscana, Liguria, Sardegna e Francia denominata “Santuario dei Cetacei”. Questa zona è particolarmente a rischio da inquinamento da plastiche galleggianti, come indicano alcuni studi pubblicati recentemente da ISMAR  sulla rivista Scientific Reports di Nature; sono state riscontrate concentrazioni molto alte di microplastiche (oggetti dai 5 mm in giù), invisibili ai nostri occhi ma dannose per la fauna marina, che in questa zona ha un rappresentante d’eccezione: la balena mediterranea. Essa, come tutti gli animali filtratori, è fra quelli maggiormente esposti al rischio di ingestione involontaria di micro plastiche. Queste possono entrare nella catena alimentare, veicolando inoltre contaminanti organici, chiamati POPS (contenuti nei solventi, pesticidi, nelle diossine ecc.).

Lo studio del problema connesso con l’accumulo delle plastiche nell’ambiente marino è multidisciplinare, e lo si può affrontare da vari punti di vista:

  •  biologico, cercando di valutare gli effetti che esse hanno sull’ecosistema e sulla fisiologia di piante ed animali;
  • fisico e chimico, per valutare a cosa porta la degradazione degli oggetti in spiaggia ed in mare, e quali tipi di sostanze nocive essi possono trasportare;
  • oceanografico, studiandone il trasporto da parte delle correnti marine superficiali, per stabilire quali possono essere i punti di maggior accumulo di questi frammenti.

Nel documentario MARINE RUBBISH, ISMAR ha voluto raccontare in breve quale sia la situazione attuale di molti di questi studi, ponendo inoltre lattenzione sulle iniziative di “scienza partecipativa” o “scienza dei cittadini”, che sempre più spesso accompagna, alle esperienze sociali ed educative, anche reali ricadute scientifiche. Grazie al supporto di volontari e di studenti di scuola superiori, impegnati in attività di monitoraggio e classificazione dei dati raccolti in numerose spiagge dell’areale selezionato (dalle 5 terre alle coste del litorale e dell’arcipelago toscano), è stato possibile realizzare tesi di laurea e raccogliere numerosi dati.

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Questi sono preoccupanti, in quanto il quadro che sembra emergere da tre anni di lavoro mostra una netta prevalenza di macro plastiche nelle zone “protette” (parchi naturali, aree off-limits per il pubblico) rispetto alle zone urbane o urbanizzate.

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ogni sacchetto contiene le pellet di plastiche raccolte in un metro quadro sul litorale romano – credit Valentina Braccia

Il motivo risiede, probabilmente, nelle più frequenti azioni di pulizia intraprese là dove la spiaggia è soggetta ad attività turistiche, mentre le risorse sempre più scarse dei parchi e la mancanza di manodopera ostacola, in essi, l’attuazione di programmi di pulizia costanti e continui, lasciando tutto nelle mani di volontari. Nelle zone naturali la percentuale di plastica raggiunge anche l’85 % di tutti gli AMD trovati, mentre nelle zone urbane o urbanizzate abbondano i multi-materiali, per il fatto che nelle seconde l’apporto è più “turistico” locale, mentre nelle prime è veicolato dal mare (correnti, mareggiate ecc.) e quindi arriva quello che galleggia meglio (plastica). L’abbandono per molti mesi al sole degli oggetti di plastica comporta, inoltre, la loro degradazione per azione dei raggi ultravioletti, molto accelerata rispetto a quanto avviene agli stessi oggetti in mare. Degradazione e frammentazione portano ad un aumento di plastiche con dimensioni sempre minori, che mescolandosi con il substrato sabbioso o ghiaioso fanno sì che le zone naturali e protette possano diventare, paradossalmente, serbatoio e fonte di micro plastiche che si riversano in mare. E’ stato avviato, in collaborazione con ENEA, un programma di monitoraggio delle micro plastiche in spiaggia in varie località, sempre del medesimo areale, per valutare se ciò sia vero, e 6 siti sono attualmente sotto controllo stagionale. I primi dati preliminari sembrano confermare quanto emerso con le macro plastiche: l’abbondanza anche di micro plastiche è maggiore nelle zone “naturali”.

Che fare?
Possibili soluzioni sono da cercarsi soprattutto “a monte” del problema:

– minor utilizzo di plastica;

– investimenti per la ricerca nella plastica bio degradabile;

– educazione.

Nel frattempo, i nostri litorali dovrebbero essere costantemente puliti, ed il governo dovrebbe stanziare fondi speciali per i parchi marini e le aree protette da adibire a tale scopo. Inoltre, anche controllare che fine fanno tutti i rifiuti rimossi dalle spiagge turistiche non sarebbe male, in quanto il loro riciclo risulta impossibile.

credit CNR  ISMAR – autore Aliani 

 

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