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Lo sfruttamento delle risorse biologiche marine

tempo di lettura: 9 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: PESCA
PERIODO: XX SECOLO
AREA: MAR MEDITERRANEO
parole chiave: sfruttamento risorse ittiche

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Lo sfruttamento delle risorse viventi del mare rientra tra le attività primarie con cui l’Uomo da sempre produce alimenti. Ancora oggi il 17% delle proteine animali consumate nel mondo vengono dalla pesca e dall’acquacoltura marina (percentuale che è molto maggiore nei Paesi in via di sviluppo e nelle isole) ed il 12% della popolazione mondiale dipende da questa attività..

Pesca, tacuinum sanitatis casanatensis (XIV secolo)

Conferenza tenuta dal dottor. Giampaolo Buonfiglio presso il ROTARY CLUB ROMA GIULIO CESARE – RYLA MARE FONTE DI VITA – 16.05.2015

Lo sfruttamento delle risorse viventi del mare rientra tra le attività primarie con cui l’Uomo da sempre produce alimenti. Ancora oggi il 17% delle proteine animali consumate nel mondo vengono dalla pesca e dall’acquacoltura marina (percentuale che è  molto maggiore in Paesi in via di sviluppo e nelle isole) ed il 12% della popolazione mondiale dipende da questa attività. Il 30% degli stock ittici è però considerato in strato di sovra sfruttamento o di esaurimento. Sono numeri citati dal Direttore Generale della FAO Jose Graziano da Silva nel Summit sulla Blue Economy tenuto all’inizio del 2014 ad Abu Dhabi, in cui ha richiamato l’attenzione dei Governi del mondo sulla necessità di intervenire con urgenza con politiche adeguate a contrastare gli effetti sul mare dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento, del sovrasfruttamento della pesca, senza considerare infinite le risorse del mare.

Sono pochi numeri ed affermazioni importanti che richiamano da un lato l’importanza alimentare, economica, sociale dello sfruttamento delle risorse biologiche marine, ma anche lo stato critico delle stesse risorse e gli enormi problemi che, se  irrisolti, rischiano di compromettere la loro rinnovabilità. Che le risorse del mare non sono infinite, e che non è possibile spingere oltre un certo limite il loro sfruttamento, è un dato che,  seppure in ritardo, è stato acquisito nel secolo scorso. Già nel 1864 il Governo norvegese si rivolse ad un biologo (Georg Ossian Sars) per studiare le ragioni  delle importanti  fluttuazioni  registrate nelle catture di merluzzo nelle isole Lofoten a cui era legata una fiorente economia. Ma nonostante quell’avvio della scienza della pesca e i vari campanelli di allarme  che suonavano in varie parti del mondo, si stentò per diversi decenni a collegare quelle fluttuazioni agli effetti della pesca sugli stock ittici, e solo il collasso di intere popolazioni, come quello del merluzzo sui Grand Banks a largo di Terranova, arrivarono a motivare una vera inversione di tendenza e l’avvio di una politica di conservazione (che in Europa è stata avviata solo nel 1983). 

Come far sopravvivere, e rendere sostenibile, l’ultima vera attività di raccolta-cattura dall’ambiente naturale regolandone l’intensità e modalità di prelievo? Come definire ed attuare questa regolazione, considerando la estrema varietà dei sistemi con cui si attua il prelievo di risorse dal mare, le economie ad esso legate, e la imperativa necessità di garantire un futuro a questa fonte di proteine pregiate per l’umanità?

ocean grabbing o overfishing nelle acque del Cile … il fenomeno è preoccupante perchè provoca un depauperamento incontrollato delle risorse ittiche da https://it.wikipedia.org/wiki/Ocean_grabbing

Come conciliare l’utilizzo di beni comuni, su cui si sono da anni sviluppate nuove sensibilità nell’opinione pubblica, con gli interessi di chi, attraverso la cattura (autorizzata dagli Stati con il rilascio di licenze) rende privati questi beni? 
Sono interrogativi che sono da decenni al centro di politiche nazionali e multilaterali e che implicano problemi complessi di natura ambientale, economica, sociale, giuridica ed, ovviamente, politica. Gli stessi problemi assumono diverse caratteristiche a seconda delle aree geografiche, della scala del prelievo (che varia dall’industriale all’artigianale), dal tipo ed intensità dello sforzo di pesca esercitato e su quali risorse target.

Queste ultime presentano a loro volta una estrema variabilità in funzione delle loro caratteristiche biologiche, a cui si lega la loro capacità di resilienza. Da qualsiasi parte si voglia  affrontare questa complessità è evidente che, comunque, lo sfruttamento delle risorse biologiche del mare è effettuabile da chiunque, nel rispetto delle norme nazionali e internazionali,  abbia la possibilità e il diritto  di accesso a tali risorse, e che questo uso del mare coesiste con altri usi. I diversi usi del mare si sono sviluppati nel secolo scorso senza alcuna pianificazione, dipendendo in buona misura da aspetti legati alla giurisdizione delle acque, un rompicapo che nonostante varie conferenze internazionali rimane affollato di irrisolti contenziosi e dichiarazioni unilaterali con l’estensione di acque territoriali motivate in vario modo (Zone Economiche Esclusive estese per 250 miglia nautiche dalla costa, Zone di Protezione Ambientale, ecc.) e con la corrispondente riduzione delle acque internazionali.

da https://it.wikipedia.org/wiki/Zona_economica_esclusiva

Se tutti gli Stati costieri del Mediterraneo, in base al diritto internazionale del mare, dichiarassero una loro ZEE si stabilirebbero delle linee mediane equidistanti tra le coste dei diversi Paesi con la eliminazione completa delle acque internazionali. Uno scenario da alcuni auspicato che sarebbe  foriero di non pochi problemi. Sul mare esistono grandi interessi (alimentari, estrattivi, militari) che possono confliggere sia sullo scacchiere geopolitico tra forze e Paesi diversi, sia tra loro all’interno delle acque territoriali di un Paese costiero. Le diverse economie del mare di fatto competono per l’occupazione dello spazio marino, per l’accesso ai fondali, e ognuno di esse provoca impatti sull’ambiente, anche drammatici, che vengono subiti dalle altre.

Lo sfruttamento delle risorse viventi del mare è anch’esso, ed allo stesso tempo, fonte e recettore di impatti
Basti pensare all’inquinamento  degli scarichi industriali (anche agricoli) che arriva in mare attraverso la rete idrografica, o alle attività estrattive degli impianti offshore, o alla autostrade del mare frequentate dal trasporto navale, ai parchi eolici, agli specchi acquei costieri prospicienti poligoni militari, alla cementificazione delle coste, per capire che la pesca è in realtà solo uno (e sicuramente non il più forte) delle economie che competono sul mare e probabilmente non il più impattante sulla sua qualità ambientale. Dalla crescente consapevolezza di questo scenario è scaturita in Europa la Marine Strategy (direttiva 2008/56/CE), entrata ormai con scadenze ed impegni nelle agende della politica nazionale ed internazionale. La Direttiva 2008/56/CE parte dalla necessaria applicazione di un approccio ecosistemico alla gestione di tutte le attività umane che hanno un impatto sull’ambiente marino, legando il suo uso sostenibile  al conseguimento e mantenimento di un “buono stato ecologico” (GES) dei mari comunitari entro il 2020. In questo senso occorre che diverse politiche risultino coerenti, integrando le preoccupazioni ambientali nella Politica Comune della Pesca, nella Politica Agricola Comune ed in altre politiche comunitarie. Considerate le diverse caratteristiche delle varie regioni o sotto regioni marine comunitarie, e quindi la esigenza di soluzioni differenziate e specifiche per ognuna di esse, la Direttiva rimanda agli Stati Membri la elaborazione di una strategia per le proprie acque, con la realizzazione di programmi di misure finalizzate al conseguimento e mantenimento del GES, partendo da una conoscenza approfondita dello stato dell’ambiente marino, dalla definizione di una serie di requisiti GES applicabili alle loro acque ed elaborando quindi criteri e norme metodologiche, coinvolgendo tutte le parti interessate. I programmi di misure degli Stati Membri dovrebbero essere elaborati sulla base del principio di precauzione, dell’azione preventiva, di correzione del danno ambientale in via prioritaria alla fonte e del principio “chi inquina paga”. Per quanto riguarda la pesca, le misure volte a disciplinarne la gestione possono essere adottate sulla base di pareri scientifici nell’ambito della PCP quale definita nel regolamento di base (2371/2002 all’epoca della formulazione della Direttiva, oggi 1380/2013), che per le finalità della Direttiva possono comprendere anche la chiusura totale di talune zone alle attività di cattura.

Quindi, per la definizione buono stato ecologico, sulla scorta di una valutazione iniziale dello stato delle loro acque marine, gli SM per ogni regione o sotto regione marina interessata definiscono una serie di requisiti di GES sulla base dei descrittori qualitativi di cui all’allegato I. In questo, il punto 3 recita: Le popolazione di tutti i pesci e molluschi sfruttati a fini commerciali restano entro limiti biologicamente sicuri, presentando una ripartizione della popolazione per età e dimensioni indicativa della buona salute dello stock”. Rispetto a questo descrittore, il DM del 17 Ottobre 2014 (Determinazione del buono stato ambientale e definizione dei traguardi ambientali) all’allegato I, specifica che:

Tutte le specie bersaglio sfruttate dalla pesca commerciale – di cui all’allegato III del Reg. 1967/2006 purchè specie MEDITS G1 e G2 o MEDIAS – in condizione di “mixed fishery”, sono soggette ad una pressione di pesca sostenibile (*) e la biomassa dei riproduttori si mantiene entro limiti precauzionali. In particolare:

  1. a) per tutte le specie bersaglio oggetto di regolari valutazioni quantitative (“stock assessment”) i livelli degli indicatori (3.1.1 – F,E e 3.2.1 – SSB) dovranno essere contenuti fra i “reference point” (FMSY, F0.1, E=0.4, SSBMSY, SSBF0.1) più adatti a seconda dei dati disponibili e della specie, e l’estremo superiore di un “margine precauzionale” che tenga conto dei livelli di incertezza, misurata statisticamente o empiricamente;
  2. b) per almeno il 66% delle specie bersaglio non oggetto di regolari valutazioni quantitative (“stock assessment”) i valori degli indicatori 3.1.2, 3.2.2, 3.3.1 e 3.3.3 sono superiori ad un margine precauzionale minimo della serie storica in percentili.

(*) Ai sensi del Reg 1380/2013 (PCP) gli obiettivi di sostenibilità ambientale ed economico sociale nel lungo termine sono coerenti con la necessità di ricostituire e mantenere, entro un lasso di tempo ragionevole (2020), le popolazioni degli stock sfruttati al di sopra dei livelli in grado di produrre il rendimento massimo sostenibile, tenendo conto, in condizioni di mixed fishery, della difficoltà di attingere a tutti gli stock contemporaneamente, contemperando il massimo rendimento sostenibile. Gli approcci di precauzione e di ecosistema informano i Piani pluriennali che sono lo strumento di gestione delle risorse alieutiche. La valutazione segue un approccio di tipo “traffic light” e gli obiettivi sono quelli dei Piani di Gestione Pluriennale previsti dalla PCP, supportati dal sistema di Raccolta dati e dai piani di monitoraggio. Nel contesto della sottoregione Mediterraneo centrale e Mar Ionio (in particolare per la GSA 16) e Adriatico (sia GSA 17 che 18) sono presenti stock condivisi con Paesei UE e Paesi terzi. In tale ambito è quindi necessario  un coordinamento internazionale al fine del raggiungimento di uno sfruttamento sostenibile.

Rispetto allo stesso descrittore 3, lo stesso DM 17 Ottobre 2014 all’Allegato II stabilisce i Traguardi Ambientali (target) :

T3.1(**): Per gli stock ittici delle specie bersaglio – di cui all’allegato III del Reg. 1967/2006 purchè specie MEDITS G1 e G2 o MEDIAS – della pesca commerciale che presentano attualmente mortalità da pesca superiore al relativo limite di riferimento sostenibile, stimato tenendo conto dell’estremo superiore di un “margine precauzionale” basato sui livelli di incertezza, misurata statisticamente o empirica (e.g. approccio dei percentili) è ridotta, entro il 2020, la mortalità da pesca corrente (Fcurr) o “l’exploitation rate” (E) in accordo con quanto sarà definito dai Piani di Gestione Pluriennale della PCP, i cui obiettivi sono di riportare entro il 2020 gli stock in condizioni di sostenibilità.

T3.2: Entro il 2020 è ridotto l’impatto ed è aumentata la conoscenza degli effetti sulle risorse ittiche e la biodiversità della pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (“IUU fishing”), anche attraverso l’implementazione a livello nazionale del Reg. 1005/2008 per il contrasto della IUUF.

T3.3: Entro il 2020 è predisposta una regolamentazione della pesca ricreativa nelle acque marine italiane ed è effettuata una prima valutazione del suo impatto.

T3.4: Entro il 2020 è regolamentata la Taglia Minima di Sbarco (“Minimum Landing Size”) dei selaci commerciali.

   (**) Il target viene applicato agli stock ittici di specie bersaglio di cui all’allegato III del Reg. 1967/2006 purchè specie MEDITS G1 e G2 o MEDIAS per i quali sono attualmente disponibili stock assessment validati a livello internazionale (GFCM o STECF) considerando i valori stimati di Fcurr ed E (per i piccoli pelagici) nella più recente valutazione. Pertanto il target è legato agli indicatori basati su stock assessment. Per quanto concerne gli stock di grandi pelagici (tonno rosso e pesce spada) si adottano invece le prescrizioni gestionali determinate in sede internazionale da ICCAT.

In questo quadro, considerato che ai sensi dell’art.4 del decreto n.190 del 2010 il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare esercita la funzione di Autorità competente per il coordinamento delle attività previste dal medesimo decreto e che  i Piani di gestione pluriennali della PCP sono di  competenza MIPAAF,  non si può che auspicare un forte coordinamento inter-istituzionale che si traduca in una governance unitaria a livello nazionale, sempre più necessaria anche per non lasciare la “Blue Growth”, o lo “Spatial planning” sulla carta delle buone intenzioni.

Andamento della produzione ittica mondiale (1950-2011), in milioni di tonnellate (in blu il pescato; in verde l’allevamento) da https://it.wikipedia.org/wiki/Ocean_grabbing

In altri termini, se viene riconosciuta l’importanza alimentare, economica, sociale, dello sfruttamento delle risorse biologiche del mare, è necessario che questo venga da un lato condotto verso i criteri della piena sostenibilità ambientale per mitigarne gli impatti, consentire la ricostituzione degli stock sovra sfruttati, definire il livello quali-quantitativo di prelievo ammissibile di ogni singolo stock o del mix di specie pescate dai sistemi di cattura praticati regolando lo sforzo di pesca – nelle componenti capacità  (GT+Kw) e attività (days at sea) – istituendo zone di protezione dalla pesca, misure tecniche ed altro, dall’altro  difendendo questa attività  dagli impatti degli altri usi del mare con cui esiste una competizione non solo sull’uso degli spazi marini, ma  anche sulla qualità dell’ambiente da cui dipende la produttività delle risorse viventi e quindi l’economia di chi le preleva a fini commerciali o di sussistenza (come è ancora il caso in tanti Paesi in via di sviluppo).

In questo quadro le politiche nazionali e internazionali tendono a non riconoscere, se non a parole, l’importanza dello sviluppo delle zone dipendenti dalla pesca, delle comunità costiere, del dialogo e della cooperazione tra Paesi rivieraschi, del ricambio intergenerazionale, e con questo della conservazione della cultura e delle tradizioni legate al mare, della produzione di proteine pregiate, dell’occupazione nei centri periferici costieri. Nella realtà tutto ciò si collega con lo sfruttamento delle risorse biologiche marine e rientra nel DNA della Cooperazione della pesca in Italia, come di altre organizzazioni e realtà associative che esistono in Mediterraneo (come le Cofradìas spagnole alle Prud’homies francesi). Realtà che potrebbero costituire degli “assets” strategici da valorizzare,  per razionalizzare  l’uso e il rispetto di un mare  la cui ricchezza tanto celebrata  (magnificamente descritta da Predrag Matvejevic nel suo “breviario mediterraneo”) è sempre più mortificata da politiche che non ne colgono appieno l’importanza e che lo stanno trasformando in una fossa comune. 

Gianpaolo Buonfiglio

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