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Attività illegali in mare e le loro influenze sulla sicurezza globale: pirateria

tempo di lettura: 4 minuti

 

Nel corso dei secoli il mare è sempre stato fonte di sopravvivenza economica per gli abitanti delle terre costiere. Non solo per le sue risorse naturali necessarie per la sopravvivenza umana, ma per la sua capacità unica di essere un ponte tra le civiltà, consentendo tramite il commercio di portare ricchezze e benessere. In seguito, gli Stati incominciarono a comprenderne il valore economico e politico degli oceani e svilupparono il concetto di Sea Power, ovvero della necessità del dominio dei mari per salvaguardare gli interessi nazionali. In realtà questo legittimo concetto veniva spesso abusato: la protezione delle rotte commerciali per la ricchezza comune diventava una scusa per affermarsi sugli altri,  chi aveva il controllo dei mari poteva controllare le economie e influenzare gli stati più deboli a proprio vantaggio. Questa affermazione è valida ancora oggi.

Nel diritto internazionale, il mare era tradizionalmente diviso in acque territoriali, soggette alla sovranità dello Stato costiero e in alto mare, dove vigeva il principio della libertà di utilizzo per tutti. L’incertezza dei paesi minori portò alla necessità di rivedere i rapporti reciproci e, nel 1982 molti paesi firmarono la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare che sostituì, nelle relazioni tra gli Stati contraenti, le precedenti Convenzioni di Ginevra del 1958 sul mare territoriale e la zona contigua, l’alto mare, sulla piattaforma continentale la pesca. Questa Convenzione, entrata in vigore solo nel 1994 a causa dei forti interessi nazionali, di fatto regolamentò le aree marine introducendo fasce di mare tra le acque territoriali nazionali e l’alto mare. Queste suddivisioni sono state necessarie per salvaguardare gli interessi economici degli Stati. Mi riferisco alla zona contigua, la piattaforma continentale, la zona economica esclusiva (ZEE) ed ii fondali dell’alto mare definiti come patrimonio comune dell’Umanità.

UNCLOS suddivisione delle acque marittime da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Zonmar-it.svg

Supponiamo ipoteticamente che l’Oceano possa divenire in futuro “il mare di nessuno” mettendo in crisi il principio legittimo della libertà dei mari perseguito per secoli. Gli Stati al fine di garantire il flusso di scambi necessario alla loro sopravvivenza, dovrebbero imporre con la forza i loro diritti ristabilendo un potere marittimo nelle aree di loro interesse. La storia ci insegna che solo il più forte potrebbe commerciare liberamente e le nazioni più deboli sarebbero soggette a questo monopolio. Le economie di molti paesi dovrebbero quindi cedere agli interessi di pochi e si genererebbero dittature economiche che porterebbero continue crisi di instabilità politica particolarmente gravi nelle aree più povere. La prosperità di pochi si scontrerebbe con la povertà e l’indigenza di molti causando la crescita di attività criminali più o meno organizzate.

Genesi dei crimini in mare
La recrudescenza di fenomeni criminali non è fantascienza, è un effetto di rebound già visto e mai completamente sanato. Mi riferisco alla pirateria che risale agli albori della storia, più di 30 secoli fa, quando l’antica e misteriosa civiltà dei Shardana, il popolo del mare, attraversava il Mediterraneo nell’undicesimo secolo avanti Cristo diffondendo terrore e distruzione. Successivamente, i Tirreni (dei pirati etruschi) tenevano sotto scacco il Mar Mediterraneo e dovettero essere combattuti dai Romani che, per primi,  compresero la necessità di stabilizzare le rotte marittime con l’uso di una forza navale militare. Dopo la caduta dell’Impero Romano molti popoli usarono il mare per le loro incursioni: Goti, Normanni e Vichinghi saccheggiando le coste europee, il Nord Africa fino alle coste del Canada. Gente coraggiosa che sfruttò la pirateria per la propria sopravvivenza e dominio. Il fenomeno si ripeté nel corso dei secoli: essi furono chiamati con termini diversi; pirati, bucanieri e corsari. Questi ultimi erano “autorizzati” da uno Stato a derubare le navi mercantili e ad uccidere in combattimento con una “lettera di marca”. 

 

I più famosi erano quelli inglesi ma non erano gli unici. Curiosamente, i Corsari erano trattati diversamente dai pirati delle Antille solo grazie a quel pezzo di carta. Il più famoso fu certamente Sir Francis Drake, famoso mercante di schiavi che aveva appreso il mestiere da un altro negriero, John Hawkins. Nel 1570 fu ingaggiato dalla marina britannica contro le navi pirata e, naturalmente, la flotta spagnola e le sue basi commerciali nel Mar dei Caraibi. La vita sulle navi non era facile, molti onori e pochissimi onori. Stranamente quelli più protetti erano proprio i pirati che, pur operando in totale illegalità, utilizzavano regole ben definite che includevano il risarcimento per morte o lesioni a seguito degli scontri navali. Alcuni di loro, i famosi bucanieri, fondarono la Confraternita della Costa alla quale sembra appartenesse anche il famoso Henry Morgan. Per gestire un insieme molto eterogeneo di individui  fu redatto un Codice Etico dei Pirati (Codice degli Stati dei Fratelli), che conteneva regole empiriche per tutte le navi della Fratellanza. Prima di imbarcare ogni pirata doveva accettare quel codice. Questo non avveniva agli equipaggi delle navi mercantili e della flotta che venivano reclutati nelle taverne, spesso contro la loro volontà, e venivano trattati duramente, senza diritti e con una miserabile paga condita da pessimo cibo. Intorno al 1700 fu creata la famosa bandiera pirata, chiamata Jolly Roger, che veniva issata a riva prima di attaccare la nave da predare, e  divenne un’icona dei pirati.

Negli ultimi anni la pirateria è tornata di moda, in particolare in aree geografiche dove le popolazioni locali riescono a malapena a sopravvivere se non con gli aiuti internazionali. I pirati di oggi, come i loro predecessori, sono spesso il risultato del disagio degli strati sociali più deboli che non hanno, economicamente parlando, un possibile futuro.

Questa non è una giustificazione: la pirateria è un fenomeno vile che deve essere combattuto vigorosamente sia in mare che a terra.

Tuttavia, ci possiamo chiedere se nel terzo millennio di fronte alle emergenze di sopravvivenza in vaste aree del pianeta, sia opportuno spendere miliardi di dollari ogni anno per combattere questi fenomeni o sia preferibile intervenire a priori sulle cause, se necessario anche militarmente, stabilizzando politicamente le aree critiche per evitare l’emergere di fenomeni delittuosi, attraverso azioni consapevoli ed economicamente disinteressate concertate dall’ONU con i governi locali.

flotta navale

Un  utopia? Forse ma di fatto non abbiamo molte possibilità se non quella di leggere un libro già scritto. 

 

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