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La pirateria, che fare per sconfiggerla? – parte IV di Fabio Caffio

tempo di lettura: 4 minuti

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livello medio
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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: NA
parole chiave: pirateria
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piracy 2017

Assicurazioni contro danni della pirateria
Circa i riscatti pagati ai pirati, non è un mistero, come è stato detto da fonti giornalistiche, che “in alcuni casi sono stati gli armatori a versare il denaro attraverso intermediari, in altri casi sono intervenuti i servizi d’intelligence… ma secondo indiscrezioni alcuni riscatti sono stati pagati anche con donazioni al Governo di Mogadiscio, che ha poi provveduto a saldare i pirati*. È evidente che la prassi dei riscatti si è oramai consolidata come il male minore nonostante le risoluzioni dell’ONU come la 1846 (2008) e la 1897 (2009) abbiano manifestato la loro preoccupazione per il fatto che il loro pagamento alimenti la crescita della pirateria. Nel nostro Paese, in di a sequestri di mercantili di bandiera, è stata invocata l’applicazione della legge 8/1991 che, nel caso di sequestro di persona a scopo di estorsione, prevede si possa disporre il sequestro dei beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti e affini conviventi.

Trattandosi di fattispecie diversa (la pirateria non è di per sé un reato contro la libertà personale e l’armatore o la società assicuratrice non sono tra i soggetti contemplati dalla norma), la misura non è stata applicata. Nessun Paese ha adottato iniziative simili. Solo gli Stati Uniti, con l’Ordine Esecutivo 13536 emanato dal Presidente Barack Obama il 15 aprile 201,0 hanno proibito il pagamento di riscatti ad un limitato numero (11) di terroristi operanti in Somalia in favore della fazione degli Shabaab. Non si è trattato dunque di un provvedimento di carattere generale, ma solo di una misura riguardante soggetti inseriti in una lista nera.

L’indecisione statunitense nell’affrontare un problema che era stato uno dei cardini della politica estera americana fin dagli albori dell’’800 (il Presidente Thomas Jefferson aveva rifiutato il pagamento di 50.000 dollari ai pirati barbareschi di Tripoli) si spiega con la contrarietà britannica alle misure di blocco dei pagamenti. Recentemente una sentenza del 2010 della English Commercial Court (Masefield AG vs. Amlin Corporate) ha affermato incidenter tantum la liceità del pagamento dei riscatti, nell’ambito di un caso concernente una richiesta risarcitoria avanzata dalla società proprietaria del carico del mercantile Bunga Melati Dua (sequestrato dai pirati nel Golfo di Aden) nei confronti della società assicuratrice della nave la quale aveva corrisposto un parziale risarcimento.

Nel respingere la richiesta dell’attore, che assumeva di aver subito, per effetto dell’atto di pirateria, la perdita del totale del carico ancorché poi recuperato dopo il pagamento del riscatto, la Corte ha stabilito che l’armatore non aveva altra alternativa, per riavere la nave, che pagare il riscatto. Questo, oltre a non essere di per sé illegale secondo la legge britannica, rappresenta quindi un mezzo ragionevole per recuperare la nave il cui valore è in proporzione di gran lunga maggiore della somma pagata. Per quanto giuridicamente consolidata, la posizione britannica di favore nei confronti dei riscatti continua tuttavia ad essere politicamente criticata da parte statunitense. L’allora Segretario di Stato Hillary Clinton aveva infatti affermato che i riscatti costituiscono un enorme problema che va affrontato. È inoltre all’esame del Congresso USA un nuovo disegno di legge che inasprisce la repressione penale della pirateria sulla base di un più efficace monitoraggio dei pagamenti dei riscatti. Questa misura sembra in linea con l’auspicio delle Nazioni Unite che gli Stati emanino misure giudiziarie volte a neutralizzare “il flusso finanziario illecito correlato alla pirateria somala”, materia affidata alle analisi Working Group 5 del CGPCS istituito dalle Nazioni Unite sulla base della risoluzione 1851 (2009) che è ora guida italiana.

* “Nave italiana liberata dopo 7 mesi, da Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2011, 

Conclusioni
La legislazione internazionale in materia di pirateria è vecchia e necessita un ammodernamento. È però politicamente impensabile emendare la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in quanto significherebbe riaprire il vaso di Pandora. La negoziazione della Convenzione ha comportato un lungo arco temporale e molti anni sono inoltre intercorsi prima della sua entrata in vigore.

 

Meglio pensare a un protocollo aggiuntivo, che tenga conto delle lacune riscontrate e della minaccia effettivamente rappresentata dalla pirateria ai traffici marittimi, senza intaccare i principi fondamentali. Ad es. sarebbe inaccettabile che si potesse entrare nelle acque territoriali altrui per dare la caccia ai pirati senza il consenso dello Stato costiero e/o una risoluzione autorizzativa del CdS. Peraltro un protocollo aggiuntivo potrebbe trasformare quelle che ora sono mere facoltà in obblighi giuridici particolarmente incisivi. In primo luogo andrebbe rafforzato l’obbligo di cooperazione tra gli Stati per la repressione della pirateria, incluso il dovere di assicurare che il proprio territorio non sia base per operazioni piratesche. In caso contrario potrebbe aprirsi la strada ad una risoluzione del CdS che autorizzasse gli Stati ad intervenire in terraferma per distruggere le basi dei pirati. In secondo luogo occorre trasformare la facoltà di sottoporre i pirati alla giurisdizione in obblighi giuridici vincolanti. Gli Stati dovrebbero essere obbligati ad adottare misure legislative appropriate, in ossequio al principio aut dedere aut iudicare come già accade per altre convenzioni internazionali, incluso il Protocollo del 2005 sul terrorismo marittimo. In tale contesto occorre anche esaminare se tribunali penali internazionalizzati a livello regionale possano costituire una valida opzione. In terzo luogo occorre prendere delle misure per impedire il pagamento dei riscatti, tenendo in debito conto un bilanciamento tra esigenze umanitarie e il dovere di non alimentare traffici illeciti. A fronte della difficoltà di concludere un protocollo a livello universale, che potrebbe essere promosso dall’IMO, si collocano le aperture a livello regionale, che sono forse di più facile soluzione. Il CdS potrebbe incoraggiarne la conclusione, anche con la partecipazione di Stati esterni alla regione interessata, ma i cui traffici marittimi sono messi in pericolo.

Il Regional Cooperation Agreement on Combating Piracy and Armed Robbery against Ships in Asia (ReCAAP), l’accordo di cooperazione regionale per la lotta alla pirateria in Asia, ne costituisce un chiaro esempio. A livello dell’ordinamento italiano, la L. 130/2011 è certamente un fatto positivo con la possibilità di imbarcare team armati sulle navi commerciali. Occorrerà attendere la sua attuazione e sperimentazione nella pratica, sia per quanto riguarda la partecipazione di nuclei militari sia per quanto riguarda l’imbarco di guardie giurate. Se necessario, provvedimenti integrativi sono sempre possibili. Ad oggi l’iniziativa italiana costituisce un unicum (per organicità e ponderata valutazione di tutti i fattori marittimi) nel panorama internazionale e come tale dovrà essere adeguatamente conosciuta e valorizzata.

originariamente pubblicato da IAI con un addendum del professor Natalino Ronzitti

Ammiraglio (ris) Fabio Caffio

 

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PARTE III
PARTE IV.

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