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livello elementare
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ARGOMENTO: ARCHEOLOGIA DELLE ACQUE
PERIODO: XIII SECOLO
AREA: OCEANO PACIFICO
parole chiave: Giappone, Cina, Marco Polo
Gli archeologi di una missione italo-nipponica dopo molte ricerche hanno scoperto al largo del Giappone meridionale il relitto di una nave che faceva parte di una grande flotta inviata dall’imperatore Kublai Khan per invadere il Giappone nel XIII secolo.

La scoperta ha qualcosa di incredibile. Si tratta del relitto di una delle 4.000 navi appartenenti alla flotta di invasione, che trasportavano una grande forza d’invasione di 140.000 uomini inviata dall’imperatore Kublai Khan per conquistare l’ultimo paese dell’Oriente non ancora sotto il suo dominio, il Giappone.
Sebbene non fossero mai state trovate tracce fisiche della grande flotta, erano stati tramandati due tentativi di conquista dell’impero del sol levante, sempre vanificati dai forti tifoni chiamati dai Giapponesi “kamikaze“, ovvero i venti divini. Nella sacralità tipica del popolo giapponese, quel nome fu in seguito utilizzato per definire, negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, i piloti suicidi che si lanciavano con i loro velivoli contro la flotta statunitense nel Pacifico nell’estremo tentativo di fermarla.
Una missione nippo-italiana ha fatto la differenza
La scoperta delle navi è dovuta ad una equipe di archeologi italiani che con moderne tecniche di ricerca ha ritrovato, nei fondali al largo della piccola isola di Takashima, i relitti di due navi facente dell’imperatore Kublai Khan, nipote del condottiero mongolo Gengis Khan. L’area di ritrovamento si trova a sud del Giappone, nell’isola del Kyushu nei pressi della baia di Hakata, che era stata per ben due volte prescelta dai Mongoli come base per l’invasione del paese nipponico in quanto sede del “Korokan” (il palazzo Imperiale). Il relitto è stato localizzato in una baia vicino alla città di Matsuura, sulla costa occidentale dell’isola di Kyushu, e gli archeologi ritengono che sia naufragato nel disperato tentativo di cercare riparo a causa della terribile tempesta.
Un imperatore illuminato
Kublai Khan apparteneva ad una famiglia di condottieri, conquistatori e sovrani mongoli. Suo fratello Hülegü aveva conquistato la Persia, fondando l’Ilkhanato, e anche suo cugino Kaidu, figlio del secondo Gran Khan Ögödei, era stato un importante condottiero mongolo.
In Europa, Kublai Khan era noto sin dal Medioevo, in quanto Marco Polo ne aveva decantato le doti di saggio e tollerante amministratore del grande impero del Catai. Marco Polo visitò il Catai nel 1270 e servì alla sua corte per oltre diciassette anni, divenendo consigliere e successivamente suo ambasciatore. Nel Milione si racconta che: « Quando gli due fratelli e Marco giunsero alla gran città ov’era il Gran Cane, andarono al mastro palagio, ov’egli era con molti baroni, e inginocchiaronsi dinanzi da lui, cioè al Gran Cane, e molto si umigliarono a lui. Egli li fece levare suso, e molto mostrò grande allegrezza, e domandò loro chi era quello giovane ch’era con loro. Disse messer Nicolò: “Egli è vostro uomo e mio figliuolo”. Disse il Gran Cane: “Egli sia il ben venuto, e molto mi piace“. » estratto dal Il Milione di Marco Polo, Vol. I, p. 6, Firenze, 1827
Khublai Khan tentò due volte di invadere il potente e ricco Giappone ma entrambe le volte i samurai resistettero con fermezza, sostenuti da un tempo inclemente che distrusse le sue flotte. La prima invasione ebbe luogo nel 1274, quando una flotta di un migliaio di navi con 45.000 uomini fu inviata verso l’isola di Kyūshū allo scopo di tentarne la conquista. La flotta incappò in un violento tifone che distrusse gran parte delle navi costringendo il resto delle navi a tornare indietro. Il secondo tentativo avvenne nel 1281, con una flotta composta da più di 1.170 grosse giunche da guerra, ciascuna lunga oltre 70 metri. Sebbene i giapponesi si fossero preparati contro possibili invasioni, costruendo possenti opere di muratura protette dai famosi samurai, ancora una volta la spedizione non ebbe successo.
Il ritrovamento della flotta perduta
Nel 2006, gli studiosi misero in discussione la teoria che la grande flotta di Kublai fosse composta completamente di barche fluviali dopo la scoperta di navi mongole costruite con chiglie tonde, ovvero progettate per una navigazione in mare aperto. Quali dovevano essere state le cause della perdita della grande flotta, partita nel 1281 dalla Cina e dalla Corea alla conquista del Giappone? Le leggende nipponiche narravano che un’immensa flotta nemica era stata distrutta e consegnata alle profondità del mare dai kamikaze, ovvero dai «venti divini», mandati in soccorso dell’imperatore del Sol Levante. Secondo gli ultimi studi, sembrerebbe che la concomitanza di quei venti impetuosi e delle tattiche giapponesi effettivamente bloccò l’invasione.
Andiamo con ordine
Sebbene la spedizione fosse documentata in un testo cinese del XIV secolo, lo Yuan shi (Cronache degli Yuan), che descriveva una grande spedizione di 4.400 imbarcazioni con a bordo 150 mila uomini del Gran Khan Kublai, fino ad oggi non erano state ritrovate evidenze archeologiche. Il mistero è ora stato finalmente risolto grazie ad una missione congiunta italo-giapponese.
In passato, Mozai Torao, un ingegnere, pioniere dell’archeologia di ricerca, basandosi sulle antiche fonti scritte, aveva identificato l’area del naufragio nella baia di Imari, nei pressi di Takashima. Era noto che ogni estate in quella fascia di mare si verificavano forti tempeste, tifoni tropicali chiamati dai nativi “Corrente nera” per via dei terribili effetti che spazzano le infrastrutture sulla costa con venti superiori ai 250 chilometri all’ora. Mozai Torao, parlando con i pescatori, aveva raccolto molte informazioni e potuto osservare anche frammenti di vasellame, occasionalmente trovati nelle reti da pesca, che però non erano ricollegabili all’epoca storica della flotta.
Durante una sua campagna di ricerca, un pescatore gli mostrò qualche cosa di diverso: un sigillo bronzeo che su una faccia recava strane iscrizioni che risultarono essere state incise in lingua pagh’sha, un idioma (in realtà una specie di esperanto) creato da Kublai Khan nel 1276 nel tentativo di unificare linguisticamente il suo sconfinato impero multietnico; sul retro si riportava la data di fabbricazione, 1279.
Era stata trovata la prova che, in archeologia, viene definita “terminus ante quem”, ovvero una data prima della quale un fatto non poteva essere accaduto.
I ricercatori erano al corrente che i Mongoli avevano tentato di invadere il Giappone due volte, nel 1274, e nel 1281. La prima volta era avvenuto a nel 1268 a seguito del rifiuto da parte dello Shogun di firmare un contratto di sottomissione. Questa proposta fu ripetuta diverse volte fino a quando, nel 1274, Kublai decise di invadere la regione a nord del Kyushu con una potente flotta di 900 navi e 33.000 soldati. Ma la notte dell’invasione un violento uragano danneggiò gravemente la flotta e l’armata, ridotta di circa un terzo, si ritirò in Corea.
Quel sigillo doveva quindi riferirsi alla seconda spedizione di Kublai. Le ricerche di Mozai Torao proseguirono, con scarsi fondi e senza successo, fino al 1986, quando la ricerca passò al giovane archeologo Hayashida Kenzo, fondatore in seguito dell’Asian Research Institute for Underwater Archaelogy (ARIUA). Nonostante il maggiore budget a disposizione, le ricerche restarono infruttuose fino al 2006 quando arrivò un archeologo italiano dell’Università Orientale di Napoli, Daniele Petrella, grande esperto di storia e archeologia giapponese, presidente dell’International Research Institute for Archaelogy and Ethnology (IRIAE).
«Ai giapponesi mancava l’esperienza metodologica sviluppata nel Mediterraneo» racconta l’archeologo. «Così nel 2006 chiesi a Hayashida di ospitarmi a mie spese. Proposi una metodologia nuova, studiando le correnti e i fondali, e quindi un diverso posizionamento delle griglie d’indagine». I risultati non tardarono ed oggi la missione dell’IRIAE, sostenuta dal ministero degli Esteri Italiano, rappresenta l’unica collaborazione archeologica di un istituto occidentale con il Giappone. L’uso di moderni sistemi Scan Side Sonar fece la differenza e portò alla grande scoperta.
La seconda spedizione del gran Khan
Torniamo al secondo tentativo. Nel XIII secolo, Kublai Khan, monarca colto e tollerante, era a capo di un enorme impero che si estendeva dalla Persia alla coste settentrionali della Cina e per affermare il suo totale potere regionale gli restava solo la conquista del Giappone. I tentativi di ottenere una sottomissione erano falliti come la prima spedizione. La conquista del Giappone per Kublai non era solo una aspirazione militare ma anche politica; di fatto una mossa per ricompattare il morale del suo immenso impero in un periodo di numerose crisi interne. Poiché il suo popolo era composto da cavalieri delle steppe e non da marinai, attaccare le isole del Sol Levante apparve da subito un impresa non facile da effettuare. Bisognava attraversare il mare per oltre 700 miglia nautiche e portare il suo esercito su un nuovo territorio; la soluzione fu quella di ricorrere principalmente a barche commerciali sequestrate ai sudditi cinesi; si trattava per lo più di giunche fluviali che si rivelarono poco adatte ad effettuare un tragitto di ben 1.400 chilometri, in un mare aperto caratterizzato da bassi fondali e spesso battuto da venti violenti. Inizialmente la navigazione proseguì senza problemi fino in vista della città di Hakata (oggi Fukuoka), quartier generale del governo nel Sud del Giappone. Qui si sarebbero dovuti ricongiungere i due gruppi navali della flotta, partiti l’uno da Quanzhou, nella Cina meridionale, e l’altro da Happo, in Corea. Ma questo incontro non avvenne mai.
Mentre una parte della flotta proveniente dalla Corea veniva affrontata e respinta dai samurai, l’altra, partita dalla Cina, subì un rallentamento a seguito della morte di un ammiraglio. Le comunicazioni non funzionarono e, ignara della sconfitta del primo gruppo navale, la flotta si diresse verso Takashima dove fu investita da un terribile tifone in prossimità della piccola baia di Imari. Questa baia, di piccole dimensioni e con molti scogli affioranti, si rivelò insufficiente ad ospitare quel migliaio di navi mercantili che trasportavano forse quarantamila uomini stipati sui bastimenti. Non poteva essere fatta una scelta peggiore. Le imbarcazioni, con evidenti difficoltà di manovra, entrarono in collisione fra loro e finirono sugli scogli.
Non tutte le navi però colarono a picco. Quelle che si salvarono furono attaccate dai samurai. Si racconta che salirono a bordo come diavoli infuriati. I poveri marinai e soldati, ancora provati dal tifone, vennero decapitati, dai guerrieri nipponici, tra l’altro invogliati dalla promessa dello Shogun di ricevere tanta terra per quante teste avessero mozzate.
Questo era narrato nei testi antichi ma, come avevamo anticipato, di questi vascelli non si era più trovata traccia, tanto da mettere in dubbio la veridicità dell’evento.
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L’eccezionale stato di conservazione dei relitti sotto il sedimento si è rivelato eccezionale:
«Le sabbie fangose, continuamente rimestate dalle correnti, hanno agito come una coperta, salvando il fasciame dalla corrosione. Un miracolo», dice Daniele Petrella. Uno dopo l’altro sono emersi dal mare migliaia di reperti lignei, trasportati nel Museo Storico ed Etnografico di Takashima, dove sono ora conservati in grandi vasche di acqua di mare e settimanalmente trattati con un polimero per preservarli dai parassiti. Dal numero delle ancore ritrovate è stato possibile stimare la presenza di almeno 260 imbarcazioni. Tra i tanti reperti recuperati si elencano mortai, forni, vasellame, elmi, specchi, perfino un’armatura di cuoio con le giunture di rame perfettamente conservata in uno scrigno sigillato con il mastice. Ma il ritrovamento più inatteso fu quello di micidiali bombe da lancio di terracotta riempite con polvere da sparo e schegge di ferro, un’arma che si credeva fosse stata creata in Occidente due secoli dopo.
L’archeologo Kenzo Hayashida, a capo della spedizione italo-nipponica che ha scoperto i relitti della flotta della seconda invasione al largo della costa occidentale di Takashima, ritiene che Kublai Khan procedette con troppa fretta. Il Khan mongolo, per conquistare in breve tempo il Giappone, cercò di approntare la sua gigantesca flotta in un solo anno (a fronte dei cinque richiesti); tra i tanti errori, costrinse i Cinesi a usare tutte le navi disponibili, comprese le imbarcazioni fluviali, del tutto inadatte ad affrontare l’attraversamento dell’alto mare. Di fatto, queste disastrose sconfitte distrussero in tutta l’Asia il mito dell’invincibilità dei mongoli.
Questa scoperta svela un mistero di quasi otto secoli, nascosto tra le sabbie di quel mare lontano. Probabilmente non si troveranno tesori, in termini di oro e gioielli, ma la soddisfazione a seguito di queste scoperte non ha prezzo.
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare.
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