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La scoperta dello stoccafisso: una splendida avventura di mare ai confini del mondo del XV secolo

tempo di lettura: 6 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: CULTURA DEL MARE
PERIODO: XV SECOLO
AREA: OCEANO ATLANTICO
parole chiave: Pietro Querini,, stoccafisso

Chi non conosce lo stoccafisso, da secoli un’allettante alternativa per i pescatori al pesce fresco, più costoso e facilmente deperibile? Sebbene il suo consumo sia ormai diffuso dappertutto, la sua origine va ricercata in Norvegia, o meglio alle isole Lofoten, dove nacque questo geniale modo di conservazione del merluzzo. I pescatori di quelle lontane isole, solo nei mesi invernali, periodo in cui i merluzzi nordici bianchi arrivano per deporre le uova, li pescavano per poi procedere all’essiccazione per una più lunga conservazione. Sebbene il suo nome possa derivare dal norvegese stokkfisk oppure dall’olandese antico stocvisch, cioè “pesce a bastone”, secondo altri verrebbe dall’inglese stockfish, cioè “pesce da stoccaggio” in quanto si poteva in tal modo mantenere come scorta per molto tempo.

Stoccafisso in essicazione alle isole Lofoten – autore Paolo Tonon – Stocafisso.jpg – Wikimedia Commons

Al di là delle prelibatezze che ben conosciamo, oggi raccontiamo una bella storia del mare che risale al XV secolo, quando audaci mercanti e navigatori partirono da Venezia sfidando l’Atlantico per commerciare con quelle regioni lontane. Fra di essi vi era Pietro Querini, patrizio veneziano appartenente alla potente famiglia dei Querini, membro di diritto del Maggior Consiglio della Serenissima nonchè Signore, nell’isola di Candia (Creta), dei feudi di Castel di Temini e Dafnes, famosi per la produzione del vino Malvasia, decise di spingersi oltre le colonne d’Ercole per commerciare quel ricercato nettare nelle Fiandre.

Tutto iniziò il 25 aprile 1431 quando Pietro Querini salpò da Candia verso le Fiandre a bordo della sua caracca, chiamata Querina, con un carico di circa 500 tonnellate che comprendeva 800 barili di ottimo Malvasia, spezie, cotone, cera, allume di rocca e altre mercanzie di valore. L’equipaggio della nave era composto da sessantotto esperti marinai di diverse nazionalità. Il 14 settembre, superato il tempestoso Capo Finisterre, vennero spinti sempre più verso ovest, al largo dell’Irlanda dove la caracca a causa del mal tempo subì molti danni, tra cui il timone e gli alberi.

Caracca portoghese come rappresentata in una mappa del 1565, notare la prua e la poppa – autore Sebastião Lópes (XVI secolo) Carrack 1565 (cropped).jpg – Wikimedia Commons

La nave, in balia delle onde andò alla deriva per diverse settimane, trasportata verso nord dalla Corrente del Golfo. Pietro Querini, il 17 dicembre convocò i suoi luogotenenti, Nicolò de Michele, patrizio veneto, e Cristofalo Fioravante, comito, e decise di abbandonare la caracca ormai poco più di un relitto semiaffondato. L’equipaggio venne suddiviso tra le due imbarcazioni disponibili: la prima un piccolo schifo1 dove si imbarcarono in 18, la seconda una lancia di maggiori dimensioni dove imbarcarono i restanti 47 compresi Pietro e i suoi due ufficiali.

Presto si persero di vista e dello schifo non si seppe più nulla. La lancia andò alla deriva, toccando alla fine terra quasi 30 giorni dopo, il 14 gennaio 1432, nell’isola deserta di Sandøy, vicino a Røst nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, con solo 16 superstiti. Sferzati dai gelidi venti sopravvissero per undici giorni sulla costa, nutrendosi di patelle, e accendendo fuochi per scaldarsi. Furono proprio i loro falò che attirarono l’attenzione dei pescatori dell’isola di Røst, dediti alla pesca e all’essiccazione del merluzzo, che li raggiunsero portandoli in salvo al loro villaggio. Querini visse con gli altri superstiti circa quattro mesi sull’isola, la cui descrizione fu oggetto di una dettagliata relazione per il Senato della Serenissima, ancor oggi conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana:

«Per tre mesi all’anno, cioè dal giugno al settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre notte. Dal 20 novembre al 20 febbraio la notte è continua, durando ventuno ore, sebbene resti sempre visibile la luna; dal 20 maggio al 20 agosto invece si vede sempre il sole o almeno il suo bagliore…gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrano molto benevoli et servizievoli, desiderosi di compiacere più per amore che per sperar alcun servizio o dono all’incontro…vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano a vendere a Bergen. (…) Prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l’una, ch’è in maggior anzi incomparabile quantità, sono chiamati stoccafissi; l’altra sono le passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di duecento libre l’una. I stoccafissi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col rovescio della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono burro (in originale chiamato butirro) e spezie per darli sapore: ed è grande e inestimabile mercanzia per quel mare d’Alemagna. Le passare, essendo grandissime, partite in pezzi le salano, e così sono buone (…)

Apro una parentesi per chiarire un comune errore: lo stoccafisso è ottenuto con il merluzzo nordico bianco (Gadus morhua – vedi sopra) e viene preparato per la conservazione tramite essiccazione, senza l’uso del sale. Invece il baccalà è ottenuto dal merluzzo nordico grigio (Gadus macrocephalus) che viene salato per la sua conservazione e stagionatura (vedi sotto).

Curiosamente nel Veneto, nell’area dell’antica dominazione veneziana anche lo stoccafisso assume tradizionalmente il nome di baccalà, tanto che il baccalà alla vicentina e il baccalà mantecato veneziano sono in effetti preparati con lo stoccafisso. In altri Paesi, come il Portogallo, con il termine bacalao – dal latino baculus, che significa bastone – si intende invece solo il pesce a carne bianca prodotto con il metodo della salagione.

In quelle isole sperdute i marinai trascorsero circa quattro mesi, ospitati dalla comunità di pescatori, persone – come scriveva il Querini, estremamente gentili e socievoli, di cui sottolineò alcune usanze curiose:
«Questi di detti scogli sono uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo: e questo chiaramente comprendemmo perché nelle stesse camere, dove dormivano mariti e moglie e le loro figliuole, alloggiavamo ancora noi, e nel cospetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto; e avendo per costume di stufarsi il giovedì, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d’un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi con gli uomini (…).»

Con l’arrivo del bel tempo, il 15 maggio 1432, Querini, aiutato dai pescatori ripartì verso Venezia, portando però con sé alcuni stoccafissi seccati. Dopo una breve sosta a Londra, dove esisteva una ricca comunità mercantile veneziana, proseguì a cavallo verso Venezia dove arrivò dopo 24 giorni di cavallo, il 12 ottobre 1432. Pietro Querini tornò con nella bisaccia un piccolo tesoro: alcuni pezzi di stoccafisso che i Veneziani impararono presto ad apprezzare, sia per l’innegabile bontà ma anche per la praticità di conservazione a bordo delle navi nei loro lunghi viaggi per mare.

Una bella e gustosa storia del mare che però non finisce qui. A riprova del merito di Pietro Querini, di aver portato questa delicatesse nell’Europa meridionale, gli abitanti di Røst da allora hanno sempre nutrito una grande riconoscenza per il veneziano tanto che, nel cinquecentesimo anniversario del naufragio, hanno eretto un cippo in suo onore nell’isola di Sandøy. Inoltre, un isolotto nei suoi pressi è stata chiamato “isola di Sandrigo”, in ricordo della cittadina in provincia di Vicenza dove si tiene annualmente la Festa del baccalà, un piatto tradizionale della cucina vicentina cucinato con lo stoccafisso che proviene ancora oggi dalle lontane isole Lofoten.

 

1 schifo, dal tedesco Schiff, “nave” (varianti: “schifazzo”, “schirazzo”) è il nome di alcuni tipi di imbarcazioni a vela (più raramente a remi), utilizzate di norma per la pesca costiera la cui origine è siciliana, probabilmente del Trapanese su imitazioni di barche analoghe mediorientali. Il Pantera avverte che lo schifo del Mediterraneo occidentale equivaleva all’imbarcazione di servizio denominata “copano” a Venezia.
2. La caracca si può definire come la principale nave di altura tra il XIV-XVI secolo. Viene descritta come una nave a vela con tre o quattro alberi e bompresso, Gli alberi, di altezza differente, montavano una vela quadrata a prora (albero maestro e albero di trinchetto) ed una vela latina sull’albero di mezzana. Nei disegni dell’epoca viene rappresentata con una alta poppa arrotondata ed un cassero pronunciato.  Inizialmente  sviluppata nel nord Europa e poi impiegata dai Portoghesi per i lunghi viaggi commerciali verso l’Oceano Indiano, forniva grandi capacità di carico e una buona tenuta al mare, venne sostituta nel XVII secolo dal galeone

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