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livello elementare.
ARGOMENTO: MEDICINA IPERBARICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: ALTA QUOTA
parole chiave: decompressione rapida, STANAG, procedure HALO
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Siamo abituati a pensare che la malattia da decompressione possa accadere solo ai subacquei, specialmente a quelli che non rispettano determinate regole. In realtà essa può colpire anche una caratteristica diversa di professionisti, i paracadutisti e gli equipaggi di volo. Parliamo della malattia da decompressione da altitudine, che avviene quando la pressione dei gas disciolti nei tessuti del corpo supera quella della pressione atmosferica, provocando la sovrasaturazione di gas nei tessuti. Questo provoca potenzialmente la formazione di bolle all’interno dei tessuti che, come sappiamo, può causare una miriade di disturbi clinici: da lievi dolori agli arti alla parestesia fino a sintomi neurologici o respiratori più gravi e, in extremis, al completo collasso circolatorio e alla morte. Per ridurre il rischio di malattia da decompressione da altitudine viene pressurizzata la cabina per aumentare la pressione ambiente e il personale respirando ossigeno al 100% (pre-ossigenazione) prima e durante l’esposizione in altitudine. Questo processo si traduce in concentrazioni di azoto ridotte nei tessuti (riducendo il rischio di formazione di bolle). In caso di malattia da decompressione da altitudine la terapia è la discesa al livello del mare (se possibile), la respirazione di ossigeno al 100% per 2 ore o più e, nei casi gravi, l’ossigenoterapia iperbarica.
Sebbene pre-ossigenare i soggetti (con respirazione con ossigeno puro) prima di risalire a 16.000 piedi, si è dimostrato vincente per ridurre i livelli di azoto, non è però esaustivo in quanto casi di MDD si sono comunque verificati. Uno studio di Webb et al (1998) stabilì una soglia del 5% per i sintomi della MDD a 20.500 piedi. Il brusco aumento dei sintomi della MDD, in caso di non pre-ossigenazione al di sopra dei 21.200 piedi, implicava la necessità di riconsiderare le attuali linee guida sull’esposizione all’altitudine di USAF e FAA. Molti casi furono riportati tra i piloti degli U2, aerei spia ad alta quota.
casi riportati tra i piloti – da presentazione 2016 OPAM Mid Year Conference, sponsorizzato da AOCOPM 12 marzo 2016
Secondo un recente articolo su Defence IQ, Addressing the risk of decompression sickness caused by high altitude airdrop missions, in uno studio della Defense Evaluation and Research Agency (DERA) for Human Sciences è stata riscontrata un’incidenza dell’87% di casi di embolia gassosa venosa. Tra di essi il 69%, che mostravano sintomi di MDD, non avevano effettuato la procedura di pre-ossigenazione. Lo studio sembra suggerire che esista anche un altro fattore legato all’attività intensa in quota che potrebbe produrre comportare percentuali di rischio ancora più elevate. I ricercatori ritengono che anche un esercizio leggero, inclusi movimenti semplici come premere i pedali o sollevare un braccio per azionare un interruttore, possa aumentare notevolmente il rischio di MDD. A differenza della ricognizione effettuate sugli U2 durante la guerra fredda, le missioni di intelligence ad alta quota in molte zone sensibili del mondo, richiedono che il pilota sia maggiormente impegnato nella cabina di pilotaggio, per cui le attività fisiche e la tensione emotiva potrebbero essere in parte responsabili dello stress che facilità il rilascio di bolle di azoto attraverso il flusso sanguigno di un pilota.
Sebbene le operazioni subacquee, sia militari che civili, abbiano precise linee guida di sicurezza per evitare l’insorgere di MDD/DCS attualmente non ne esistono di analoghe per le attività in alta quota. Questo comporta che la possibilità di incorrere in un sindrome di decompressione (con un rischio minimo del 9,99% per ogni lancio) non può essere trascurata. Di fatto, il principale fattore che provoca la malattia da decompressione in quota è l’altitudine. Secondo i ricercatori l’altitudine minima per la formazione di bolle è di 18.000 piedi, sebbene ci siano state segnalazioni di MDD avvenute anche al di sotto di tale soglia.
dettaglio delle bombole di ossigeno a corredo all’attrezzatura dei paracadutisti HALO – USAF
Facciamo un passo indietro. Perché i militari effettuano lanci di paracadute ad alta quota?
Lo avrete visto in molti film di azione. I protagonisti si lanciano nel vuoto ad alta quota e aprono il paracadute in prossimità del suolo al fine di non essere intercettati dal nemico. La capacità di lanciarsi da un’altitudine elevata consente all’aereo di entrare nello spazio aereo avversario ad altitudini elevate e quindi rimanere al di fuori della portata dei sistemi di difesa terra-aria nemici.
paracadutisti HALO su un Globemaster C 17, il 15 maggio 2019, si preparano al lancio sulla base di Charleston, SC. – autore foto US Air Force Master Sgt. Joshua DeMotts 190514-F-FH950-0441.jpg – Wikimedia Commons
Ciò consente il lancio di operatori delle Forze Speciali e delle loro attrezzature da alta quota sia ad alta apertura (HAHO) sia a quota bassa (HALO). Mentre il personale delle forze speciali effettua una formazione specialistica approfondita per prepararsi agli effetti della diminuzione della pressione atmosferica, inclusa la pre-ossigenazione (respirando ossigeno al 100% prima dell’esposizione ad alta quota), i fattori fisiologici umani combinati con le condizioni ambientali sono variabili incontrollabili che mettono a rischio tutti i membri dell’equipaggio, compresi i piloti, potendo provocare la formazione di microbolle di azoto all’interno del corpo e l’insorgenza di malattia da decompressione correlata all’altitudine.
variazione dei livelli di ossigeno in quota da cui si nota che alla quota di 6.000 metri il livello di ossigeno è del 10% At What Altitude Do You Need Oxygen When Hiking? – OutdoorYak
Di fatto la malattia da decompressione rappresenta un rischio reale per tutti quando si opera in alta quota. Al fine di ridurre il rischio gli operatori respirano ossigeno al 100% fino ad un’ora prima dell’esposizione a un ambiente a pressione ridotta, al fine di ridurre l’azoto dal corpo, e continuano a respirare ossigeno fino alla discesa sotto i 10.000 piedi, una procedura nota come “denitrogenazione“.
Secondo lo STANAG 7056 (Standard agreement 7056), quando un aereo sale ad un’altitudine di 18.000 piedi, è necessario che l’equipaggio completi un periodo di denitrogenazione prima che l’aereo raggiunga i 16.000 piedi, al fine di ridurre l’azoto all’interno dei tessuti.
In estrema sintesi, è fondamentale che l’esposizione prolungata in quota sia ridotta al minimo, considerando che questo riduce il rischio, ma non lo annulla, e che devono essere previsti piani di assistenza sanitaria di emergenza quando si verifica un incidente di MDD.
Il problema è che qualora si verifichi una malattia da decompressione in quota, il personale colpito necessita di un rapido trattamento, cosa che non sempre può essere effettuato. Dobbiamo ragionare al contrario … salendo rapidamente in quota aumentano le bolle in circolo con la possibilità di incorrere in una MDD che deve essere trattata in tempi rapidi, anche nella considerazione che non sempre potrebbero essere garantite strutture di trattamento iperbarico nelle immediate vicinanze.
camere da decompressione portatili da Hyperbaric Oxygen Chambers for Sale – Monoplace and Multiplace Units (hyperbaricstore.com)
Una soluzione potrebbe essere l’uso di camere da decompressione portatili per l’evacuazione di emergenza verso le strutture mediche più vicine. Questo sarebbe particolarmente necessario in caso di un’improvvisa perdita di pressione nella cabina, fattore che causerebbe una rapida decompressione, esponendo l’equipaggio ad un rischio concreto di MDD. Uno studio dell’aeronautica statunitense (USAF) effettuato alla base aerea di Eielson ha suggerito l’impiego di camere iperbariche portatili modulari che dovrebbero diventare obbligatorio per le future missioni ad alta quota.
In campo militare tale esigenza è stata raccolta da diversi Paesi che hanno concordato la predisposizione obbligatoria di strutture iperbariche portatili sui velivoli in accordo con un nuovo standard NATO, che dovrebbe essere ratificato nel 2021.
In sintesi, gli attuali standard, definiti dalla NATO Air and Space Interoperability Council (ASIC) per l’esposizione all’altitudine, considerano una serie di fattori (gas, ipossia/iperventilazione, visione notturna senza aiuto/assistita) ma non sembrano considerare come affrontare eventuali incidenti fisiologici legati alle variazioni di pressione. Sebbene vengano utilizzate misure precauzionali ed attrezzature di sicurezza per ridurre il rischio di incidenza, la ratifica di un nuovo standard minimo che incorpori la necessità per le strutture aeree di supporto di acquisire camere iperbariche nelle vicinanze ed a bordo sembra essere imminente. Nel frattempo, nel tentativo di affrontare un possibile incidente, molte delle principali unità operative delle forze speciali stanno utilizzando dei sistemi di camere iperbariche portatili per il trattamento sul posto e l’evacuazione di emergenza del personale sintomatico.
in anteprima Eglin AFB, Florida – Lancio con paracadute tipo HALO (lancio ad alta quota con apertura a bassa quota) di operatori EOD – circa 9500 piedi sulla base di Eglin nel luglio 2010 – Autore Master Sgt. Lance S. Cheung – Fonte
http://www2.afsoc.af.mil/shared/media/photodb/photos/040221-F-2907C-074.jpg
Fonti
- FAA Altitude induced decompression sickness altitude decompression sickness (faa.gov)
- Altitude Decompression Sickness Incidence Among U-2 Pilots: 1994-2010 | Request PDF (researchgate.net)
- P-High Altitude DCS in U2 pilots, Robins (aocopm.org)
- Webb JT, Pilmanis AA & O’Connor RB. (1998) An abrupt zero-preoxygenation altitude threshold for decompression sickness symptoms. Aviation Space & Environmental Medicine 69
- Killer at 70,000 Feet | Military Aviation | Air & Space Magazine (airspacemag.com)
- Documentation for the USAF School of Aerospace Medicine Altitude Decompression Sickness Research Database (researchgate.net)
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con numerosi Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Atlantide e della Scuola internazionale Subacquei scientifici (ISSD – AIOSS).
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