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La pirateria, che fare per sconfiggerla? – parte I di Fabio Caffio

tempo di lettura: 10 minuti

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livello medio
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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: NA
parole chiave: pirateria
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Il problema della pirateria moderna è tutt’altro che risolto.  Per chi volesse approfondire l’argomento pubblichiamo un articolo scritto per lo IAI dall’ammiraglio Fabio Caffio, uno dei maggiori esperti di diritto marittimo, consulente dello Stato Maggiore della Marina e del Ministero degli Esteri e dal professor Natalino Ronzitti. Lo studio che viene proposto, per motivi di lunghezza in quattro parti, è un eccellente riferimento per chi volesse approfondire i termini giuridici; fu pubblicato per la prima volta dallo IAI nel 2012 in un periodo in cui la pirateria nel Corno d’Africa aveva raggiunto livelli inaccettabili che comportarono in seguito ad un’estensione dei gruppi navali per un controllo puntuale dell’area e a norme di regolamentazione del traffico dei mercantili. Molto fu fatto in seguito ma il problema non è comunque risolto, e cuoce sotto la cenere in attesa di un abbassamento dell’impegno marittimo in quelle aree. Lo scritto è un punto di situazione riferito a quegli anni ma è ancora in gran parte validissimo e foriero di elementi di riflessione. Vi invito ad una attenta lettura di tutte le quattro parti e a visitare tutto il documento dello IAI che contiene anche un addendum del professor Natalino Ronzitti.

Introduzione
La recrudescenza della pirateria, un fenomeno criminale che sembrava totalmente dimenticato, è dovuta alla mancanza di sorveglianza delle acque prospicienti le coste da parte di taluni Stati costieri, che ormai sono “Stati falliti” come la Somalia, oppure che non riescono a mantenere efficacemente la l’ordine nel proprio territorio e quindi non impediscono atti di banditismo in mare. La situazione viene efficacemente descritta con il principio “la terra domina il mare”.

Un’ordinata organizzazione del territorio dello Stato comporta che le sue forze marittime siano impegnate in una continua azione di polizia volta ad impedire fenomeni criminali. Fino a qualche tempo fa la comunità internazionale non si era resa conto delle conseguenze “marittime” del fenomeno degli Stati falliti. Le missioni di peace-keeping hanno avuto per oggetto esclusivamente il territorio degli Stati, anche perché le Nazioni Unite si sono trovate impreparate a gestire situazioni di peace-keeping marittimo. L’attenzione della comunità internazionale è stata attratta dalla sicurezza marittima in senso stretto, che ha comportato misure per la lotta al terrorismo internazionale e al trasporto, via mare, delle armi di distruzione di massa. Al contrario, il quadro giuridico di riferimento della pirateria è rimasto inalterato ed è incentrato sulla Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958 e sulla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. Anche la legislazione interna di adattamento non ha fatto grandi passi avanti e la repressione della pirateria si interseca con altri principi e norme internazionali, specialmente quelle relative alla protezione dei diritti umani. Il crimine di pirateria non è giustificato dalle cause più o meno nobili accampate dai pirati, come lo sfruttamento illegale delle risorse ittiche da parte dei pescherecci degli Stati più sviluppati o lo sversamento di rifiuti in mare. Il fenomeno esiste, ma è di palese evidenza che esso non può essere contrastato facendo ricorso alla pirateria. Solo la stabilizzazione dei territori base di operazioni piratesche può mettere fine al fenomeno della pesca illegale e del traffico dei rifiuti.

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Missioni anti-pirateria al largo del Corno d’Africa
Il contrasto alla pirateria marittima rappresenta la funzione più rilevante, ai fini del mantenimento del libero uso del mare, che il diritto internazionale, come riflesso nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, assegnata alle navi da guerra di qualsiasi bandiera. L’uso della forza in mare in contesti non bellici, dopo la messa al bando nel 1856 della c.d. “guerra di corsa” praticata da mercantili armati da privati, è diventata infatti un’attività demandata esclusivamente agli Stati attraverso le navi da guerra, espressione nell’alto mare della loro sovranità. Naturale quindi che all’indomani dell’appello lanciato dalle Nazioni Unite con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza (CdS) 1816 (2008) i Paesi interessati abbiano dislocato al largo del Corno d’Africa, la zona dove la pirateria è più attiva, a causa dell’ormai ventennale assenza di autorità statale in Somalia, un imponente dispositivo navale. Si è così data attuazione a quanto prescritto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare circa l’obbligo di cooperazione nella repressione della pirateria ricercando forme di azione congiunta internazionale. Il primo passo è stato fatto dall’Unione Europea che, nel quadro della propria Politica di Sicurezza e Difesa Comune (Common Security and Defence Policy, CSDP) ha lanciato, con la Joint Action 2008/851/CFSP del  10 novembre 2008, la missione militare “Atalanta”.

Il mandato dell’operazione si articola attualmente nei seguenti compiti:

1) protezione delle navi noleggiate dal Programma Alimentare Mondiale (PAM) per il trasporto di aiuti alimentari alle popolazioni somale e di quelle che danno sostegno logistico alla missione dell’Unione Africana in Somalia, AMISOM;

2) deterrenza, prevenzione e repressione della pirateria;

3) protezione, caso per caso, della navigazione al largo delle coste somale di imbarcazioni vulnerabili;

4) monitoraggio delle attività di pesca nella stessa zona. Da notare che successivamente Atalanta ha assunto una connotazione ancora più robusta prevedendo sia il controllo di imbarcazioni sospette in uscita dai   porti somali sia il contrasto delle “navi madre” che supportano i battelli pirata a centinaia di chilometri dalle coste. In parallelo con l’Unione Europea anche la NATO si è impegnata nella lotta alla pirateria, prima con l’operazione Allied Protector, poi con Ocean Shield. Quest’ultima operazione, in corso dal 17 agosto 2009, si basa su regole di ingaggio (Rules of Engagement, RUE) analoghe a quelle di Atalanta che assegnano alle forze navali il compito di “impedire e neutralizzare la pirateria quanto più possibile”. Nel suo ambito è stata condotta l’11 ottobre 2011 da parte di unità navali statunitensi e britanniche operanti sotto il comando del Contrammiraglio italiano Gualtiero Mattesi preposto alla Task Force 508 dello Standing NATO Maritime Group 1 (SNMG1), il blitz che ha consentito la cattura dei quindici pirati coinvolti nell’assalto al mercantile italiano Montecristo. Del tutto peculiare è l’approccio alla cooperazione perseguito dalla NATO con il Puntland, la regione della Somalia settentrionale che pur riconoscendo l’autorità del governo federale di transizione somalo è di fatto indipendente, in modo da svolgere azione di capacity building verso le istituzioni locali in occasione di soste di proprie unità. Sostanzialmente simile a quello delle altre due operazioni multinazionali (alle quali partecipano a turno unità della nostra Marina) è la Combined Maritime Force-Combined Task Force 151 (CTF 151) che, al di fuori di una cooperazione strutturata nell’ambito di un’alleanza o di un’istituzione, assume la forma di una coalizione di volenterosi. Il suo comando è stato assunto dagli Stati Uniti, dalla Corea del Sud e dalla Turchia. L’attività del CTF 151, più che al largo delle coste somale, si svolge in prossimità del corridoio internazionale di transito istituito nel Golfo di Aden.

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Tra le forze aeronavali in campo contro la pirateria somala dal 2008 vanno anche annoverate quelle degli Stati intervenuti in forma unilaterale: Cina, India, Iran, Giappone, Malesia, Corea del Sud, Russia, Arabia Saudita e Yemen. È doveroso ricordare comunque che l’Italia è stata la prima nazione a dislocare una propria unità al largo della Somalia nel 2005 con l’operazione “Mare Sicuro”. Nel luglio 2005, in vicinanza del Corno d’Africa, erano stati attaccati i mercantili italiani Cielo di Milano e Jolly Marrone. Su richiesta della Confederazione degli Armatori (Confitarma) il Ministro della Difesa aveva così disposto l’invio, in vicinanza delle coste somale, della Fregata Granatiere in missione di protezione degli interessi nazionali. La Marina Militare aveva poi sventato, nella stessa area, un tentativo di attacco pirata alla motonave italiana Ievoli (marzo 2006).

La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare
Come si è accennato, la disciplina internazionale della pirateria comprende regole che codificano la consuetudine internazionale. Esse si trovano scritte nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, che ripetono quelle della Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958. L’Italia ha ratificato ambedue le Convenzioni. Ma le regole sulla pirateria vincolano anche gli Stati che non sono parti della Convenzione del 1982 o perché le regole di quest’ultima Convenzione sono dichiarative del diritto consuetudinario, la cui osservanza s’impone a tutti gli Stati membri della comunità internazionale o perché taluni Stati, che non hanno ratificato la Convenzione del 1982, hanno invece ratificato la Convenzione di Ginevra del 1958. È il caso degli Stati Uniti e, nel Mediterraneo, di Turchia, Libia, Siria e Israele. Nella Convenzione del 1982, la pirateria è disciplinata agli artt. 100-107. Rileva anche l’art. 110, relativo al diritto di visita. La Convenzione impone un dovere di collaborazione (più precisamente di “massima collaborazione”) tra gli Stati per reprimere la pirateria in alto mare (art. 100). La disposizione è peraltro abbastanza generica e, per poter risultare efficace, necessita di essere sostanziata mediante la conclusione di accordi internazionali tra gli Stati che intendono partecipare a iniziative antipirateria.

La pirateria è definita nel successivo art. 101 e implica un atto di violenza, sequestro o rapina commesso dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave contro un’altra nave in alto mare per “fini privati” (si prescinde qui dall’atto di pirateria commesso da un aeromobile contro altro aeromobile o da un aeromobile contro una nave). È quindi escluso il movente politico. La pirateria, per essere tale, deve essere commessa in alto mare e implica la partecipazione di due navi. Non è quindi pirateria l’ammutinamento. Non costituisce pirateria un atto di violenza commesso da una nave militare contro una nave privata, tranne che l’equipaggio della nave da guerra si sia ammutinato e s’impadronisca della nave per commettere atti di pirateria (art. 102).

Una nave viene definita Nave pirata  quando sotto controllo di persone che intendono servirsene per fini di pirateria (art. 103). La nave pirata può essere sequestrata e le persone che si trovino a bordo arrestate. Anche i beni possono essere sequestrati, nel rispetto dei diritti dei terzi in buona fede (art. 105). Ciò che potrebbe rilevare per la sorte del riscatto in danaro, a supporre che questo si trovi ancora a bordo al momento della cattura. Qualora, tuttavia il sequestro sia stato effettuato sulla base di prove insufficienti, lo Stato che ha disposto il sequestro è obbligato a risarcire i danni (art. 106). Risarcimento che è dovuto anche qualora si visiti in alto mare una nave sospettata di darsi alla pirateria e il fermo, rivelatosi infondato, abbia prodotto danni all’armatore (art. 110). Solo navi da guerra o aeromobili militari possono operare il sequestro oppure altri tipi di navi o aeromobili contrassegnati quali mezzi in servizio di Stato (art. 107). Ogni nave da guerra o aeromobile militare ha diritto di condurre la lotta alla pirateria, di sequestrare il mezzo navale e arrestare i pirati e sottoporli alla giurisdizione dei propri tribunali.

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (CdS) in materia di pirateria
Il CdS ha emanato un rilevante numero di risoluzioni sulla pirateria somala da quando è iniziata la crisi del Corno d’Africa, dalla prima del 2 giugno 2008, la 1816, sino all’ultima del 22 novembre 2011, la 2020. Quindici risoluzioni, compresa la 2018 (2011) dedicata alla pirateria del Golfo di Guinea, che indicano linee di policy e settori di attività internazionale volti a debellare il fenomeno criminale. Ma che necessità c’era di una così imponente produzione, non sempre lineare, quando poi, a condensarne i contenuti essenziali, si rinvengono richiami a vigenti norme di diritto internazionale, ad iniziative dell’Organizzazione Marittima Internazionale (International Maritime Organization, IMO) o a progetti di capacity building giudiziario regionale di non facile realizzazione? La domanda non è peregrina, ma prima di darle una risposta è necessario ripercorre il cammino seguito dal Consiglio di Sicurezza che, sin dall’inizio della sua azione, si è trovata la strada sbarrata da ambiguità e ristrettezze della normative internazionale.

Come si è visto, la stessa Convenzione sul diritto del mare, nel limitarsi a definire la pirateria come crimen juris gentium, perseguibile come tale da tutti gli Stati, non ha stabilito regole precise né per l’uso della forza in mare né per l’esercizio della giurisdizione.

Di fatto tutti gli Stati non hanno mai provveduto in anni recenti a creare una prassi che potesse integrare, in materia di repressione della pirateria, le norme internazionali che prevedono già la possibilità per le navi da guerra di tutti gli Stati, in alto mare, di fermare, abbordare e sequestrare i mercantili di qualsiasi bandiera coinvolti in atti di pirateria arrestando i pirati. Di qui l’esigenza per il CdS, per vincere le resistenze degli Stati a muoversi autonomamente nel vigente quadro normativo, di dichiarare la pirateria del Corno d’Africa, sulla base del Capitolo VII della Carta dell’ONU, una “minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale” da debellare per ristabilire la libertà di navigazione nelle vie di traffico marittimo. A questo fine il CdS nelle sue risoluzioni si è mosso secondo varie linee provvedendo anzitutto ad autorizzare l’uso della forza con “tutti i mezzi necessari”, secondo i vigenti principi di diritto internazionale, da parte degli Stati intervenuti con propri assetti aeronavali.

In teoria non ce ne sarebbe stato bisogno visto che la Convenzione del diritto del mare è già chiara in materia e la lotta alla pirateria somala non configura un conflitto armato, ma evidentemente, risalendo la prassi dell’antipirateria ai secoli passati, si è voluto darle una legittimazione ulteriore. L’autorizzazione è stata anche concessa, in via temporanea e derogatoria e previo assenso del governo di transizione somalo (Transitional Federal Government, TFG), per l’ingresso nelle acque territoriali somale. Un ulteriore punto chiave su cui si è concentrata l’azione del CdS è stato quello della repressione penale dei crimini di pirateria e dei correlati problemi di coordinamento nell’esercizio della giurisdizione tra gli Stati. Di questo si parlerà in seguito ma si può sin da ora evidenziare che è stato perso tempo prezioso nella lotta all’impunità dei pirati, inseguendo il progetto di coinvolgere nella repressione penale contro i pirati la Somalia e gli Stati dell’Africa orientale. Forse sarebbe stato più utile responsabilizzare sin dall’inizio i due principali attori della repressione penale e cioè gli Stati che catturano i pirati e quelli le cui navi ed i cui cittadini sono stati attaccati. Quasi tutte le varie risoluzioni hanno inoltre evidenziato, come risposta alla pesca illegale ed allo sversamento di rifiuti tossici in aree del Corno d’Africa, l’esigenza di rispettare i diritti sovrani della Somalia nello sfruttamento delle risorse ittiche e nella protezione dell’ambiente marino. Questo ha portato il Parlamento somalo, nell’ambito della Roadmap per il rafforzamento delle proprie istituzioni, ad approvare un progetto di legge per l’istituzione della Zona Economica Esclusiva (ZEE), a modifica della precedente legislazione del 1974 che non ne precedeva l’esistenza

Pirateria e altri fenomeni di violenza sui mari
La pirateria deve essere distinta da altri fenomeni di violenza sui mari, benché la distinzione in concreto non sia sempre chiara. Il punto non è solo teorico. Mentre per la repressione della pirateria ogni Stato ha diritto di fermare una nave in alto mare, non altrettanto può dirsi per altri crimini.

a) La pirateria deve essere innanzitutto distinta dal terrorismo. Il terrorismo è crimine commesso per fini politici e non per meri scopi di depredazione. Ovviamente vi può essere una rapina o un sequestro commessi dai terroristi per procurarsi fonti di danaro e quindi la distinzione terrorismo/pirateria non è sempre chiara. Di regola è la legittima difesa l’esimente che consente di reagire contro una nave in mano ai terroristi. Le interpretazioni variano sulle modalità di esercizio del diritto di legittima difesa, intesa da alcuni Stati, ad esempio gli USA, in modo molto ampio;

b) Insorti o movimenti di librazione nazionale non sono pirati. I terzi si astengono dall’attaccarli, tranne non interferiscano con i loro diritti di navigazione. Al contrario il governo legittimo ha il diritto di condurre operazioni militari marittime contro gli insorti.

c) Atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima e contro le piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale sono repressi secondo la Convenzione di Roma del 1988 e relativo Protocollo promossi dall’IMO. L’Italia ne è parte. Nel 2005 è stato adottato un Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Roma, che ha per oggetto il terrorismo e trasporto via mare di armi di distruzione di massa (atomiche, batteriologiche e chimiche). Anche in questo caso non è legittimo fermare una nave in alto mare, senza il consenso dello Stato della bandiera.

d) Infine non ha niente a che vedere con la pirateria la Proliferation Security Initiative (PSI), un’iniziativa disciplinata da intese informali (non vincolanti) con cui gli Stati aderenti (tra cui l’Italia) intendono far fronte alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. Anche in questo caso non è consentito il fermo di una nave in alto mare, tranne che vi sia il consenso dello Stato della bandiera. Il consenso può essere dato preventivamente e gli Stati Uniti hanno concluso un numero ragguardevole di accordi di abbordaggio (boarding agreements)

Fine I parte – continua

 

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