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livello elementare.
ARGOMENTO: NAUTICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: manutenzione imbarcazioni
Spesso i criteri più usati nella scelta di una barca sono principalmente estetici, di abitabilità e di tendenza del momento. I principi aero-idrodinamici, strutturali e di sicurezza sono di frequente purtroppo meno convincenti rispetto alle regole dello spazio e del design.
Come si dice, “tanto il motore spinge ogni cosa“
In realtà è vero, più di quanto si possa immaginare. Nei motoscafi è una condizione naturale ma è sicuramente meno accettabile in una barca a vela dove il motore è il vento, i dislocamenti, le stazze e le carene si legano al tempo e alla memoria, all’elogio della lentezza e al viaggio inteso come spostamento. La barca a vela naviga sospesa tra scienza e spiritualità, tra fisica e filosofia e restituisce cuore alla tecnica moderna, suggerendo il Tao (la via) verso la consapevolezza della navigazione. Disegni con sovrastrutture in eccesso, bordi liberi alti, linee inadatte a infilarsi e sollevarsi di continuo tra le onde, la mancanza di una attenta cultura dell’ispezione e controllo, sopravvivono in un paziente e delicato equilibrio. Soddisfatte certe esigenze minime strutturali e di sicurezza, diventa decisivo per l’utente lo spazio, l’arredo, l’accessorio e la motorizzazione (in grado di navigare a 7-8 nodi controvento), nella buona e nella cattiva sorte!
Come si dice, “ … poi una bella linea blu sui fianchi, smagrisce tutto“
Possedere una bellissima barca arredata con legni pregiati in teak e accessori “aeronautici” ma con uno scafo sottile e fragile di plastica è come avere un bellissimo casale in pietra ma con fondamenta in cartongesso. Una barca non è sufficiente che sia bella e basta, deve navigare e riportarci sempre a casa. Attenzione allora. Tra noi e il mare ci separa molto spesso l’ignoto, una linea sottile inesplorata su cui riversiamo tutta la nostra fiducia.
In barca tutto deve essere visibile, ispezionabile, noto, facilmente raggiungibile e soprattutto sostituibile, dai silent-block, agli arridatoi, alle prese a mare, alla coperta, all’albero e al sartiame. Prue, masconi, bagli e poppe non sono solo sezioni trasversali ma veri e propri nodi progettuali e insieme alla LWL (lunghezza al galleggiamento) danno forma e dimensione allo scafo e alla coperta, sulle quali calibrare compromessi e … convivenze! Infilarsi nell’onda con una prua affilata o rotondeggiante, dritta o rovescia, sollevarsi con masconi panciuti o stretti, leggeri o pesanti, sbandare con fianchi e murate a piombo o inclinate, fuggire con poppe larghe fino all’acqua e linee di galleggiamento estreme senza slanci “aerei” (la velocità massima di uno scafo dislocante è proporzionale alla radice quadrata della sua lunghezza), sono le caratteristiche e le scelte di base che determinano pregi e difetti, forme e funzioni di una barca a vela.
“ … Una buona barca ti deve permettere di navigare all’infinito, dondolando tra un’orzata e una poggiata, senza scappare mai controvento….il mare ti butta in poggia ma le vele in orza …” Carlo Sciarrelli |
Per molti la barca IOR ha rappresentato negli anni il giusto compromesso. Erano scafi semplici ma potenti, belli da vedere (secondo i limiti di stazza), tenevano il mare bene, erano equilibrati e pensati per regate d’ altura, veloci, armati discretamente e dotati di arredi interni e impianti sufficienti per andare in crociera con relax.
Cosa è cambiato oggi?
Oltre ai volumi, alle poppe, ai materiali, ai dislocamenti ed “armi” sempre più comodi da gestire, anche le coperte e le tughe hanno subito e spesso sofferto questa trasformazione linguistica, nonostante una nuova attenta e affidabile tecnologia. La coperta di una barca non è solo un “lastrico solare praticabile”, ma uno spazio funzionale ai carichi uniformi, puntuali e accidentali che chiudono un sistema statico di spinte laterali, torsioni e flessioni in un calpestio termico, impermeabile, di irrigidimento strutturale e di funzionalità concentrate da zona prendisole a manovre e acrobazie “sotto tela”. La riduzione del peso (abbassamento del baricentro) e l’aumento della coibentazione sono i criteri che da sempre giustificano l’uso indiscusso di Skin e Core, di pelli e anime, di multistrati compositi o semplicemente di Sandwich.
Dal pregiato Honeycomb alveolare riesumato dall’aeronautica, allo strapotere ventennale della balsa Contourkore (materiale con buona densità e resistenza a compressione ma il meno marino in assoluto per igroscopicità dopo … la mollica di pane) fino ai polistiroli più evoluti come il Termanto in pannelli di PVC espanso reticolato rigido a cellula chiusa che troviamo nel 60/70 % delle barche realizzate dopo gli anni 90. Al Roacel, Airex, Styrofoam, il sandwich rappresenta il materiale più usato da sempre per leggerezza e prestazione nelle coperte di imbarcazioni in composito. Il sandwich è composto da un’anima in materiale leggero e incomprimibile, con le due facce ricoperte da un laminato più o meno elastico chiamato pelle con lo scopo di ottenere una struttura leggera e rigida, isolata termicamente e acusticamente (riducendo il cosiddetto “effetto tamburo” tipico delle costruzioni in stratificato semplice). Resiste egregiamente a carichi distribuiti (come l’aria che scorre sulle facce di un’ala di un aereo) e non tanto a quelli puntuali e concentrati.
Dove usarlo allora nelle barche, ma soprattutto perché?
In una barca l’unica zona sollecitata teoricamente da carichi distribuiti è l’opera viva. Anni fa non conveniva ancora usare il sandwich sotto il galleggiamento a causa di una manodopera senza esperienza specifica, uso di tecniche di laminazione tradizionali e, tra dubbi e resistenze, alleggerire uno scafo proprio dove si richiedeva maggior peso in basso non convinceva molto. Quindi si salì all’opera morta per proseguire e finire in coperta. Tutte zone dove urti in banchina, parabordi che comprimono, calpestii e salti, cadute accidentali di oggetti, sollecitazioni del rigging e l’assorbimento d’acqua rendevano il tutto delicato e incerto tranne per il vantaggio di un peso minore e un isolamento maggiore.
Ma tant’è che nonostante questo rimane ancora oggi il sistema più utilizzato nella costruzione di coperte e tughe per rigidità dimensionale, leggerezza, coibentazione. Negli anni 80 si sperimentava il sistema senza conoscerne però i difetti, oggi con la tecnica dell’infusione e del sottovuoto e con resine sempre migliori, questo procedimento si è perfezionato ed escludendo eventi traumatici, è assolutamente affidabile e resistente e soprattutto con una riduzione della manodopera e dei costi.
Questo procedimento prevede la stesura del materiale della prima pelle a secco sullo stampo applicando un sacco per il vuoto e aspirando l’aria e relativo risucchio (senza pressione aggiunta) della resina attraverso una fitta rete di tubicini posti tra il sacco e le fibre creando un laminato con un miglior rapporto fibre/resina, senza sprechi!
Anche se è noto che all’aumentare della quantità di resina aumenta anche la resistenza alla propagazione della de-laminazione, oggi il contesto industriale cerca di continuo il modo per usare meno resina per la stratificazione (come nel caso dell’infusione), per leggerezza, rigidità e sicuramente risparmio (la resina rappresenta un costo rilevante nel processo costruttivo). La stesura dell’anima nella laminazione manuale avviene direttamente sulla pelle precedentemente stesa, e già solidificata, incollandola con un materiale chiamato bonder. Nell’infusione invece, l’anima viene semplicemente appoggiata alla pelle e sarà la resina, infusa, che costituirà il mezzo di unione fra loro. Fondamentale è permettere il deflusso della resina da una faccia all’altra per consentire a quest’ultima di impregnare entrambe le facce. I pannelli dell’anima sono dotati di fori di passaggio opportunamente dimensionati e spaziati creando dei chiodi di resina che uniscono stabilmente le due facce e conferiscono ottime caratteristiche meccaniche. La stesura della seconda pelle è una operazione del tutto simile alla prima.
Sotto carico una delle pelli viene sollecitata a trazione e l’altra a compressione e l’anima a taglio ottenendo una struttura con una rigidità superiore a quella di un laminato di spessore pari alla somma delle due pelli del sandwich. ll giusto compromesso tra lo spessore dell’anima e delle pelli si trova calibrando la distanza tra queste ultime e la densità del nucleo interposto. Più si riduce la distanza tra le pelli, più la densità dell’anima deve essere elevata, perché più sollecitata a compressione.
Le pelli sono in stratificato, con fibre di vetro, di carbonio o di Kevlar e quindi con moduli elastici diversi e con deformabilità variabili. Sandwich in nido d’ape d’alluminio con pelli in kevlar (o carbonio) o anime in balsa e pelli in vetroresina poliestere sono esempi con elasticità, comportamenti ed effetti molto diversi tra loro, destinati per barche con usi e utenti differenti.
La condizione essenziale in una qualsiasi struttura a sandwich è la perfetta aderenza e stratificazione delle pelli all’anima, la perfetta giunzione scafo coperta e la sigillatura rigorosa di tutte le forometrie e carotaggi, per attrezzature e accessori che invadono e spesso arredano di comodità e abbellimenti le nostre coperte.
Continue sollecitazioni in una zona con scarsa aderenza, sono sufficienti a provocare per propagazione un distacco più ampio e in alcuni casi il cedimento strutturale. Bolle d’aria, polvere, tracce di grasso o umidita sono causa di scarsa aderenza, causando inneschi di delaminazione. Quando si evidenzia, lo strato separato diventa “morbido”, anche sotto una pressione leggera di una mano o col peso del calpestio di una persona.
Il sistema tipo contourkore, prima dell’utilizzo del Pvc e di espansi a cellule chiuse, è stato il più usato nucleo (core) di blocchetti di balsa per sandwich di migliaia di coperte di barche in tutto il mondo. Tagliati perpendicolarmente al senso della vena e riassemblati in pannelli avevano una buona densità di circa 90 kg/m3, più elevata rispetto alla media degli espansi e grazie all’ottimo legame con le resine, che penetravano nella capillarità del legno, si creava un pacchetto inizialmente molto resistente. Purtroppo con il passare tempo, stress meccanici, infiltrazioni e assenza di manutenzioni e controlli, aprivano la strada all’acqua provocando appesantimenti e distacco delle pelli (delaminazione)
David Pascoe, tra i più noti surveyor americani, sosteneva che l’ingresso dell’acqua dentro al sandwich è quasi inevitabile nel tempo e l’anima in balsa era meno peggio di altre! Scafo, murate e coperta avevano livelli di rischio e preoccupazioni diverse: “… L’opera viva non è costruita con la precisione e cura di un rolex submarine ed è probabile che beva acqua prima o poi. Le fiancate non immerse e verticali sono molto meno predisposte ad essere sature d’acqua e soprattutto nel caso piuttosto facile da individuare. La coperta in sandwich è sicuramente più isolante e più leggera forse, ma questa è l’evidenza di quanto siano più robuste e meno fragili! E’ un lancio di dado…”
E’ anche vero che i tempi, la tecnologia e le conoscenze sono cambiate, al meglio! Il pensiero di Moitessier “In mare il meglio è nemico del bene” forse oggi è superato.
Quanto alla giunzione con lo scafo, tipica nelle imbarcazioni con dimensioni superiori ai 10 m, di norma si usa adesivo strutturale e quasi sempre una falchetta in alluminio integrata al laminato o fissata il più delle volte a distanza di circa 15 cm uno dall’altro con bulloni passanti e dadi inox, viti o rivetti su apposita battuta dello scafo rivolta verso l’interno, spesso cinta da un pavese in legno massello e in alcuni casi da una fascia di laminazione (pezzatura) per rendere il tutto integrale e monolitico.
Trafilaggi dai fori o dai perni della giunzione, dalle basi dei candelieri, collanti inadatti, viti ossidate e compressioni concentrate sulle murate (parabordi e ormeggi laterali) che schiacciando i fianchi sollecitano la giunzione causando possibili indebolimenti, sono cause di criticità. E’ necessario individuare aree di distacco per evitare che le sollecitazioni della navigazione e l’acqua eventualmente infiltrata espandano la delaminazione in un’area sempre più vasta. Un attenzione particolare deve essere posta a vecchie e nuove forature in coperta per il montaggio, sempre più di routine, di spryhood, rollbar, tientibene, stopper, gallocce, autogonfiabili e golfari sparsi per vari utilizzi.
Crepe e scalfitture sul gelcoat sono un segno di rischio e bisogna intervenire per scongiurare infiltrazioni di acqua e umidità nel pacchetto sandwich. Nel caso di vecchie coperte rivestite in teak avvitato controllare i “tappi” se integri e presenti, le teste delle viti o chiodi messi “alla traditora”, cioè di sbieco, usati un tempo per bloccare la maschiettatura tra doga e doga, se annegati ancora nei comenti in sika o “scoperti” con tracce di umido e marciume intorno.
Fine Parte I – continua
Sacha Giannini
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architetto, yacht designer, perito navale ed ex ispettore di sicurezza del diporto per il rilascio delle certificazioni di sicurezza, è un appassionato e profondo conoscitore delle imbarcazioni a vela che effettua valutazioni tecniche e stime commerciali. Dal 2000 esercita la professione di architetto, tra terra e mare, impegnato nell’architettura come nel refitting di barche.
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