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Narcosi, una “sbornia” negli abissi

tempo di lettura: 6 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: MEDICINA SUBACQUEA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: narcosi


Un Martini da evitare
L’ebbrezza degli alti fondali non è una scoperta moderna. Sono passati oltre 180 anni da quando uno scienziato francese, Victor Theodore Junod, in uno scritto del 1835, “Reserches Physiologiques et terapeutiques sur les effects de la compressione et de la rarefaction de l’air tant sur le corp que sur les members isoles” riportò che i palombari che respiravano aria compressa mostravano con la profondità un comportamento alterato. Junod è uno studioso poco noto ma fu grazie a lui che fu realizzata una camera iperbarica per trattare le patologie polmonari usando pressioni comprese fra 2 e 4 atmosfere assolute. Junod descriveva che nei palombari colpiti da questa sindrome “le funzioni del cervello sono attive, l’immaginazione è vivace, i pensieri hanno un fascino particolare e, in alcune persone, sono presenti sintomi di intossicazione.

Nel corso degli anni questi strani comportamenti anomali, veri e propri sintomi, furono studiati anche da altri scienziati; tra di essi Paul Bert, uno scienziato molto conosciuto per i suoi primi studi sulla malattia dei cassoni (in seguito chiamata malattia da decompressione) e sulla tossicità dell’ossigeno. In pratica, Bert aveva descritto che quando i palombari si immergevano in profondità (ovvero oltre i trenta metri) presentavano  talvolta pericolosi segni di euforia, intossicazione, torpore, rallentamento motorio fino alla perdita di coscienza. Nel 1933, la UK Royal Navy condusse un’indagine su diversi palombari e scoprì che in 17 su 58 immersioni tra i 200 ei 350 piedi / 61,7 e 107,9 metri questi avevano subito una semi-perdita di coscienza e non ricordavano le azioni che avevano compiuto sott’acqua.

La prima prova “quantitativa” sull’effetto narcotico dell’aria compressa respirata in profondità avvenne nel 1937, quando due scienziati della Marina degli Stati Uniti (USN), C.W. Shilling e W.W. Willgrube, testarono gli effetti tra i 90 e i 300 piedi / 27,8 e 92,5 metri di quarantasei palombari chiedendo loro di effettuare calcoli matematici (ad esempio fare delle semplici operazioni come addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni). Shilling e Willgrube registrarono il tempo impiegato da ogni palombaro per eseguire queste attività ed il numero di errori fatti in funzione della profondità. Furono proprio tre medici della Marina degli Stati Uniti, R.C. Behnke, E.P. Motley e R.M. Thomson ad attribuire per primi la narcosi all’aumento della pressione parziale dell’azoto con la profondità.

Essi dimostrarono che ad una profondità  di oltre 66 piedi / 20 metri, i palombari in alcuni casi mostravano “euforia, ritardo dei processi mentali superiori e coordinazione neuromuscolare compromessa” con un aumento dei sintomi oltre i 100 piedi / 30 metri con “una sensazione di stimolazione, eccitazione e di euforia, di tanto in tanto accompagnata da riso e loquacità,” segni e sintomi simili a quelli dovuti agli effetti dell’alcool, della mancanza di ossigeno (ipossia) o nelle prime fasi di un’anestesia. Scoprirono che i palombari più esperti erano i meno colpiti, che i segni più gravi apparivano man mano che la profondità aumentava e che la narcosi veniva accelerata da una rapida compressione (immersione rapida).

Nel 1950, nuovi esperimenti quantitativi confermarono il rallentamento delle capacità motorie nei subacquei colpiti da narcosi con una diminuzione della attenzione caratterizzata da risposte più lente e irrazionali. Grazie a questi studi siamo oggi al corrente del potenziale rischio che corriamo scendendo in profondità e possiamo mettere in atto, in caso di necessità,  le manovre di emergenza che vedremo.

La Narcosi e l’immersione ricreativa
Ogni anno, avvengono in tutto il mondo incidenti, purtroppo anche gravi, dovuti alla narcosi d’azoto, nota anche come “effetto Martini”. Molti di essi si potrebbero evitare applicando semplici regole che vengono insegnate nei corsi di primo livello. 

Una prima consapevolezza che deve essere compresa è che questo fenomeno è imprevedibile e può avvenire anche a subacquei esperti che non ne avevano mai sofferto in precedenza. Questo senso di disagio cognitivo, euforia, a volta di allucinazione può creare situazioni pericolose per se e per il compagno di immersione. Sebbene l’esperienza sembri fare la differenza, esistono alcuni fattori che, indipendentemente dal numero di immersioni effettuate, possono facilitare l’entrata in narcosi del subacqueo..

Cerchiamo ora di capire meglio perché avviene la narcosi da azoto
In genere le immersioni ricreative sono effettuate ad aria che sappiamo essere composta da azoto (78%) e ossigeno (21%). Tralasciamo per ora gli effetti dell’ossigeno (O2) ed occupiamoci dell’azoto (N2). 

Ogni buon subacqueo sa che quando si immerge la pressione parziale di tutti gas (e quindi anche quella dell’azoto N2) che aumenta in maniera proporzionale all’aumento della pressione assoluta. Nel caso dell’azoto, questo aumento ha un effetto narcotico sul sistema nervoso ed il  subacqueo può subirne gli effetti già da una profondità di circa 100 ft. (33 metri). Non a caso, come abbiamo anticipato, questa alterazione dei sensi fu definita “effetto martini“, o ebbrezza degli alti fondali, perché i subacquei la paragonavano agli effetti causati dal bere un bicchiere di Martini a stomaco vuoto per ogni ulteriori 50 piedi (circa 15 metri). A similitudine dei un avventato bevitore, il subacqueo colpito da ebbrezza può incominciare a sentire uno stordimento sempre maggiore man mano che scende in profondità.

Sebbene non ci sia una regola fissa, alcuni subacquei possono sperimentare una sensazione euforia, altri possono diventare ansiosi, insensibili o subire vertigini. Nei casi peggiori possono subire effetti bizzarri come percepire un gusto dolce nell’acqua salata o disturbi visivi. Questa confusione mentale può portare, come abbiamo detto, ad effettuare azioni pericolose e senza controllo che comportano un rischio per l’immersione. Sembrerebbe che la potenza narcotica dei gas inerti sia legata alla loro affinità con i lipidi (grassi). Quando l’azoto penetra nelle sostanze grasse intorno al cervello, rallenta la comunicazione tra le cellule, e quindi, rallenta il pensiero ed i tempi di reazione.

Ogni gas ha un effetto narcotico diverso per cui vengono impiegati nelle immersioni gas differenti in funzione dell’aumentare della profondità.

Come può essere evitata?
Il sistema di coppia consente una certa sicurezza reciproca anche in caso che uno dei subacquei entri in narcosi. Se il compagno ne subisce l’effetto, l’altro può aiutarlo a risalire ad una quota alla quale questi effetti scompaiano o possano essere meglio controllati. Sembra banale ma la maggior parte degli incidenti dovuti alla narcosi avvengono a subacquei che si distaccano dal compagno e si spingono da soli in profondità.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è rapporto-effetti-narcotici-per-i-diversi-gas.png

tabella estratta da Phys and Med of Diving, autori Brubakk and Neuman, 2003, 5 edizione, a pag. 304 – tabella realizzata da @ andrea mucedola

Incidenti attribuiti alla narcosi d’azoto si verificano soprattutto tra i subacquei sportivi che superano i limiti ricreativi. Non tutti sanno che la narcosi non riguarda solo l’azoto e può verificarsi anche con molti dei gas cosiddetti “nobili” o inerti. Si pensi che uno di questi gas rari, l’argon, ha circa 2,3 volte la potenza narcotica dell’azoto. Un gas inerte che fa eccezione è l’elio (He) che ha effetti narcotizzanti trascurabili (0,15) ed è meno solubile dell’azoto nei tessuti del corpo. Questo è il motivo per cui l’elio viene utilizzato nelle immersioni profonde in saturazione. Come dimostrò  il fisiologo R.W. Hamilton, nel 1966, una miscela di elio ed ossigeno (Heliox) fornisce una maggiore tolleranza e sicurezza contro la narcosi. Di contro l’elio ha una elevata conducibilità termica che richiede l’uso di scafandri riscaldati, è piuttosto costoso e distorce la voce (ricordate la voce di Paperino).

Per ridurre i rischio è sempre conveniente considerare questi fattori:
Conoscere i propri limiti

L’immersione è un’attività multi tasking: bisogna prestare la massima attenzione in aggiunta a quella verso  il vostro compagno a ciò che state facendo (la difficoltà a mettere a fuoco è un sintomo significativo), la profondità ed il consumo d’aria. Se si nota un improvviso senso di vertigini o confusione, fermatevi e concentratevi su ciò che accade intorno a voi. Poi avvisate il vostro compagno (buddy) e risalite insieme lentamente ad una profondità minore.

Evitare l’alcool
Quando si sta programmando la vostra immersione, tenete a mente che l’alcool aumenta i segni e sintomi da narcosi da azoto. L’astinenza totale almeno 24 ore prima di immergersi è una buona prassi (anche se spesso trascurata).

Riposo
Prima e subito dopo le immersioni astenersi da lavori pesanti. Non immergetevi se siete affaticati e stanchi. Il lavoro e la fatica possono causare livelli elevati di CO2 nel corpo che si traduce in effetti metabolici sui neurotrasmettitori nel cervello.

Rilassatevi prima dell’immersione
L’ansia aumenta la suscettibilità alla narcosi che ha un effetto sui neurotrasmettitori nello stessa area cerebrale dove opera l’ansia

Scendete lentamente 
Gli esperimenti hanno dimostrato che una rapida compressione possa facilitare la narcosi nei subacquei

Cercate di stare al caldo
Come per l’ansia, gli effetti del raffreddamento corporeo  non sono noti, ma il freddo ha effetti analgesici e anestetici.


In sintesi, siate sempre prudenti, pianificando con attenzione le vostre immersioni
Quando vi immergete non state facendo a gara a chi arriva prima sul fondo, scendete gradualmente senza correre. Iniziate la stagione con immersioni a bassa profondità per poi aumentare i vostri obbiettivi. Se siete affaticati o stanchi, avete passato allegramente la sera prima con gli amici, magari bevendo un martini di troppo, sdraiatevi al sole ed aspettate i vostri amici sulla spiaggia, non c’è immersione che valga la vostra vita.

 

foto in anteprima – photo credit @ andrea mucedola

 

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