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livello elementare
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ARGOMENTO: ARCHEOLOGIA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: MAR MEDITERRANEO
parole chiave: ancora antiche
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L’archeologia subacquea fonda grande parte della sua popolarità, nel mondo degli appassionati subacquei ricreativi, sulla curiosità che generarono negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso le prime scoperte e purtroppo, le prime predazioni, del nostro immenso patrimonio storico e archeologico subacqueo che era, ed è, rappresentato dagli oltre 1.000 relitti censiti (nota 1) che giacciono a varie profondità nell’intero bacino del Mediterraneo.
Allora come ora, grande curiosità destavano i ritrovamenti di antiche anfore, vasi e piatti, coppe e corredi di bordo comprendendo in questo raggruppamento anche le ancore, e proprio di questo parleremo in questo contributo. Quante volte ci è capitato di vedere, a far bella mostra di sé, nei porti, nelle città di mare, sulle passeggiate delle riviere, magari davanti alle sedi dell’autorità portuale, antiche ancore ammiragliato in ferro, imponenti, massicce, simbolo di un’antica arte marinaresca? Quanta curiosità ha generato la visione di un ceppo in piombo, di una contro marra? Quanta voglia di sapere cos’erano quelle starne forme di piombo e come funzionavano? In queste prossime righe entreremo nei dettagli, cercheremo di vedere e spiegare come gli antichi navigatori del nostro mare concepirono e realizzarono questi strumenti di bordo, parte importante del corredo alla navigazione che spesso troviamo abbandonate sul fondo, durante le immersioni nei siti di interesse archeologico, mute testimoni di antichi naufragi.
Da quando l’Uomo, con la costruzione delle prime imbarcazioni, ha intrapreso la via liquida del mare e delle navigazioni nei bacini interni, si pose il problema di poter assicurare a terra o in una rada il proprio “legno” durante le pause della navigazione. Un tempo queste primordiali imbarcazioni, si muovevano esclusivamente durante il giorno, seguendo rotte costiere, senza perdere il contatto visivo con la terraferma e la sera, dopo un intero giorno di navigazione i marinai accostavano verso riva per poi issare l’imbarcazione sulla spiaggia. Spesso un ridosso roccioso sconsigliava di trarre a terra l’imbarcazione, allora era necessario “fermarla” con qualcosa di solidale al fondo. Risolsero allora, questo problema, attraverso l’utilizzo di grossi massi, legati all’imbarcazione con una cima. Gli studiosi moderni definiscono questo tipo di attrezzatura nautica “ancora a gravità”, definizione che evidenzia nel termine letterale, come sia lo stesso peso del masso roccioso a garantire un sicuro ormeggio. Ci è testimone di questa pratica lo stesso Omero che nelle sue opere, l’Iliade e l’Odissea, chiama questo ausilio della navigazione con il termine eunè letteralmente tradotto dal greco “grossa pietra” (nota 2).
Ora questa pietra poteva avere una rastremazione al centro, per facilitare la legatura della cima vegetale e successivamente anche un foro, per lo stesso scopo. Ancora oggi esistono e possiamo vedere certi pescatori che utilizzano questo metodo per poter “fermare” le proprie imbarcazioni da pesca, nelle lagune o nelle rade dove sono soliti ormeggiare. Per questo motivo, se il ritrovamento di un ancora di questo tipo è decontestualizzato, ovvero non collegato al sito in cui giaceva e ad eventuali altri manufatti o segni antropici definenti un relitto, la datazione è molto ardua, se non impossibile. L’evoluzione di queste ancore primordiali corresse quello che era il loro difetto principale: un masso troppo pesante era ovviamente difficile e faticoso sia da gettare in acqua sia da salpare a bordo quando si doveva ripartire, mentre uno troppo leggero non offriva quelle garanzie di tenuta, esponendo l’imbarcazione ad una pericolosa deriva.
Nacquero così le ancore litiche fornite di due o più denti di ancoraggio. Proviamo a descriverle: un masso di forma trapezoidale con tre o più fori, di cui uno sommitale in prossimità del lato corto del trapezio atto a ricevere la gassa di fissaggio della cima e gli altri posti vicino al lato lungo del trapezio, con la funzione di consentire il fissaggio di punte di legno sporgenti dalle due estremità e opportunamente rastremate per garantire l’infissione e assicurare così una migliore tenuta. Una sorta di aratro, che infilando nel sedimento fangoso o sabbioso i suoi vomeri, fermavano l’imbarcazione così finalmente ancorata sul fondo. L’immagine a corredo dell’articolo vi renderà, meglio di tutte le descrizioni più dettagliate, l’idea della funzionalità di tale manufatto.
E’ controversa, fra gli studiosi, la precisa definizione dell’epoca in cui, l’evoluzione tecnologica, consentì di passare alle ancore in legno, con ceppo in pietra e quindi in piombo, anche in virtù del fatto ché, come detto poc’anzi, le ancore in pietra sono di fatto, nel bacino del Mediterraneo, ancora usate. Queste ancore in legno erano costituite sostanzialmente da un affusto centrale, due marre e da un ceppo, inizialmente in pietra, trasversale sul fusto rispetto alle marre, con la funzione di posizionare sul fondo l’ancora in modo che le due marre, potessero garantirne la presa. I vantaggi di tali ancore sono evidenti: da una parte la leggerezza rispetto all’ancora di pietra, quindi una facilità di stivaggio all’interno dell’imbarcazione, grazie anche al fatto che il ceppo appesantitore era, in alcuni modelli, rimovibile e quindi, la sola ancora strutturata dall’affusto e dalle marre, era riponibile ovunque nello scafo. Avevano però un difetto: l’assemblaggio delle marre sull’affusto, dato il tipo di trazione a cui era sottoposto, richiedeva una solidità che i primi modelli non potevano garantire. Nacquero così, come naturale evoluzione, le contro marre in piombo e conseguentemente anche i ceppi costituiti dallo stesso materiale. Ovviamente il legno, soprattutto se immerso in acqua, non ha una durata nel tempo lunghissima.
Gli esempi citabili di legni ritrovati sott’acqua, che siano parte strutturale dell’imbarcazione, elementi del fasciame o parte delle ancore in legno, hanno sempre rappresentato, per i restauratori, grossi problemi riguardo all’esporre tali manufatti lignei all’aria e quindi il loro trattamento con resine e liquidi particolari per evitare la disgregazione totale una volta all’asciutto. Occorre precisare che tutti i resti lignei di epoca antica ritrovati sott’acqua, sia in mare che nei laghi o fiumi, sono risultati, nella loro originale giacitura sempre coperti dal carico dell’imbarcazione trasportato e dal sedimento fangoso o sabbioso che ha preservato la disgregazione della loro struttura.
E’ per questo motivo che, parlando di ancore antiche, i subacquei moderni possono imbattersi quasi esclusivamente in ancore litiche (nota 3) o dei residui in piombo di ceppi e contro marre. Come già accennato in precedenza, il ritrovamento di un tale manufatto non costituisce di per se un ritrovamento importante se non lo colleghiamo con l’eventuale relitto che potrebbe giacere nelle immediate vicinanze o se attribuiamo all’eventuale getto di materiale pesante, del corredo di bordo, atto ad alleggerire lo scafo, dopo un eventuale urto accidentale dell’imbarcazione, su scogli affioranti. Ecco che diviene quindi fondamentale uno studio delle circostanze che hanno portato alla presenza di quei resti in quel luogo. In altre parole diviene importante la contestualizzazione dell’evento, la ricerca degli eventuali resti di un imbarcazione, magari sepolta dal sedimento, e l’analisi dei fondali circostanti per l’individuazione delle probabili linee di rotta seguite in antico, con la presenza di approdi naturali e passaggi pericolosi su cui le imbarcazioni, seguendo quelle rotte, avrebbero potuto urtare, arrecando gravi danni allo scafo. Le ricerche del relitto o delle sue evidenze sull’interfaccia fondo/acqua possono avvenire attraverso prospezioni subacquee eseguite con diversi divers che scandagliano visivamente un tratto di fondo definito dal progetto di ricerca o attraverso l’uso di un sub-bottom profile, una sorta di ecoscandaglio che riesce ad indagare il fondo marino, penetrando con le sue emissioni sonar nel sedimento, rendendo così evidenti segni antropici sepolti sotto il fondo e non visibile all’occhio del subacqueo impegnato nella ricerca.
Come dobbiamo comportarci quindi, noi semplici appassionati, dopo aver ritrovato un antico ceppo d’ancora? Innanzi tutto fissare la posizione, senza rimuovere dal suo sito il manufatto attraverso tre allineamenti geografici o, se possibile, con la lettura della posizione GPS (ogni smartphone vi può dare le coordinate); quindi, dopo aver segnalato all’Autorità competente il ritrovamento, rendersi disponibili per effettuare le ricerche del caso (note 4 e 5).
Ivan Lucherini
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NOTE
1 A. J. Parker- Ancient Shipwrecks of the Mediterranean and the Roman Provinces – BAR International Series 580 -1992
2 Omero – Iliade I 436, XIV 77, Odissea IX 136, XV 498.
3 In pietra
4 Solo nel caso di un possibile trafugamento del reperto siamo autorizzati a rimuoverlo dal fondo avendo l’accortezza di consegnarlo immediatamente all’autorità competente sul territorio
5 Le ricerche sottomarine, da parte di privati, di reperti antichi sono espressamente vietate dal Decreto Urbani … ovvio quindi che per effettuarle occorre avere un’apposita autorizzazione rilasciata dalla competente autorità.
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archeologo subacqueo, appassionato ai temi della valorizzazione, della diffusione dei contenuti storici dei nostri Beni Culturali è iscritto all’elenco nazionale del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo come esperto abilitato alla redazione degli elaborati sulla VIARCH (valutazione di impatto archeologico). Si occupa di valorizzazione scrivendo progetti che rendano fruibili e contestualizzati gli apporti di ogni conoscenza materiale, e progettando percorsi multimediali provenienti dallo studio di siti di rilevanza storica. La sua attenzione si concentra soprattutto sugli ambienti costieri e marini, con approfondimenti sui temi del commercio e della navigazione antica. Laureato in Archeologia, curriculum tardo antico e medievale, all’Università di Sassari con una tesi dal titolo: “L’Archeologia subacquea di alto fondale, evoluzione delle metodologie di indagine e nuove prospettive nell’archeologia subacquea oltre i 50 metri di profondità” con una votazione di 110/110 e lode. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Archeologia alla scuola di dottorato in Storia, Letterature e Culture del Mediterraneo dell’Università di Sassari con una tesi dal titolo: “Evoluzione del paesaggio costiero nella Sardegna nord occidentale: Bosa e il suo fiume. Metodi avanzati di indagine.” Inoltre Lucherini è iscritto all’elenco regionale RAS delle guide turistiche e Course Director PSS (Valutatore nei corsi per istruttori subacquei) e OTS (Operatore Tecnico Subacqueo).
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