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L’affondamento del U.S.S. Maine: le premesse

tempo di lettura: 5 minuti

 

livello elementare

.

ARGOMENTO: STORIA NAVALE
PERIODO: XIX SECOLO
AREA: OCEANO ATLANTICO
parole chiave: USS Maine, inchiesta

 

Il USS MAINE fu una delle prime corazzate americane, spesso considerata una classe con la quasi gemella Texas; la sua costruzione, approvata nel 1886 come incrociatore corazzata, fu impostata nel 1888 presso il N.Y. Navy Yard di Brooklyn, dove fu varata nel 1890, venendo riclassificata corazzata di seconda classe prima della sua consegna, il 17 settembre 1895

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E’ noto come l’affondamento del Maine nel porto dell’Avana nella serata del 15 febbraio 1898 sia stata, a seconda delle interpretazioni o dell’uso, la causa oppure il pretesto del conflitto ispano/americano:

  • causa dichiarata: una mina posta sotto lo scafo, dalla banchina,
  • pretesto: un’esplosione interna.

Di fatto l’esplosione del USS Maine, il 15 febbraio del 1898, avvenuta in un clima di confronto con la Spagna,  fornì su un piatto d’ argento a Theodore Roosevelt la giustificazione per la guerra, nel momento di massima tensione con il decadente impero spagnolo. Fu adottata da subito l’ipotesi “comoda e politica” dell’attentato o sabotaggio, a causa di  un’esplosione esterna, evitando che la US Navy ricorresse ad indagini ed analisi serie e profonde da parte dei suoi organi tecnici, effettuate con funzionari tecnicamente preparati in materia degli incidenti a bordo che cominciavano a ripetersi ed erano tenuti sotto osservazione.

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Gli Spagnoli cercarono di cooperare al fine che venissero raccolti elementi che provassero la loro estraneità, ma questi non vennero presi in considerazione. La guerra era strategicamente “necessaria” per gli Stati Uniti proprio per assicurarsi le stazioni di carbonamento spagnole, soprattutto nel Pacifico, ed evitare che le stesse cadessero sotto il controllo di potenze rivali. Riguardo all’incidente del Maine, una prima commissione di inchiesta statunitense, attivata nel 1898 e presieduta dal C.te William T. Sampson, identificò rapidamente e facilmente le cause dell’affondamento e concluse che la detonazione delle munizioni da sei pollici del deposito prodiero era stata innescata da una torpedine (mina) esterna, all’altezza dell’ordinata 18 (in zona prodiera). Curiosamente, nemmeno a guerra terminata, quando avvenne il recupero del Maine nel 1911, si riaprì una seria indagine sulle cause dell’esplosione.

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Remember Maine” fu lo slogan di un secolo (ed ancora non sopito), quasi una pietra tombale contro ogni ripensamento, e dopo 76 anni ci vollero la curiosità e testardaggine del leader carismatico della rifondazione della US Navy, l’ammiraglio Hyman Rickover, per riaprire il caso ed effettuare un’indagine seria sull’evento.

Le conclusioni di Rickover furono rivoluzionarie, in controtendenza con le precedenti, attribuendo l’affondamento ad un’esplosione interna allo scafo, ipotizzando l’innesco ad un incendio per autocombustione in un carbonile contiguo ad un deposito munizioni. La saga del U.S.S. Maine è duratura, ed il mito del sabotaggio restio a morire; malgrado la documentata esposizione di Rickover, pubblicazione di 23 pagine del 1976, definita Hansen-Pryce analysis, anche la prestigiosa National Geographic nei venti anni successivi condusse una campagna tesa a confutarla per confermare la tesi dell’esplosione esterna quindi dell’atto di sabotaggio. Rickover, pur non disponendo allora degli attuali modelli matematici e di simulazione, aveva costituito e fatto lavorare per oltre due anni un consistente team di ricercatori, tra cui appunto Hansen e Pryce che avevano collaborato con lui all’inchiesta sull’ affondamento dello Scorpion, SSN 598, perso nel maggio del 1968.Sarebbe interessante entrare nell’esame comparativo delle due tesi, ma mi limiterò all’esposizione della tesi di Rickover che, anche per esperienza diretta, condivido. La tesi di Rickover è oggi quella di fatto accettata dalla US Navy, e riportata nelle pubblicazioni ufficiali, ma resta la meno accettata dai media. Nell’imminenza del centenario del drammatico evento la polemica intorno alle cause dell’incidente si riaccese in forma molto aspra. Nel 1995 l’USNI pubblicò una seconda edizione del lavoro di Rickover, verificato con strumenti e modelli più aggiornati che arrivò però alle stesse conclusioni.

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Per descrivere l’incidente, partiamo dal principale presupposto, relativo all’ autocombustione del carbone, un fenomeno intuito e temuto alla fine del XIX secolo anche se non conosciuto a fondo nella totalità delle cause e dinamiche. Tra i tipi di carbone l’antracite, di alta qualità, è praticamente esente dal fenomeno dell’autocombustione, anche per la sua durezza e compattezza che la rendono poco soggetta alla rottura ed allo sbriciolamento. In parole semplici, l’autocombustione si verifica quando, con la rottura della pezzatura del carbone, le superfici di rottura vengono a contatto con l’ossigeno (dell’aria) e ossidandosi generano calore.  Il fenomeno viene esasperato con carbone bagnato o comunque in presenza di elevata umidità in climi come quelli tropicali, come erano esattamente le condizioni all’Avana.

Va osservato come le modalità di imbarco del carbone, ed in particolare la sua caduta nei carbonili, facilitasse la rottura dei pezzi di carbone, creando le condizioni di ossidazione delle superfici, ed innescando l’autocombustione. I rimedi pratici erano quelli di compattare al massimo il carbone per evitare un’eccessiva circolazione dell’aria tra il combustibile, ma anche quello di raffreddare i depositi con l’arieggiamento e, soprattutto, ruotare il più frequentemente possibile l’uso dei carbonili in maniera da evitare lunghe permanenze dello stesso carbone negli stessi. In caso di autocombustione, quando il protrarsi del fenomeno faceva raggiungere una temperatura di 400-425 ° C (circa 750-800 ° F), il carbone iniziava a bruciare, anche senza fiamma, con quel pericoloso fenomeno che viene definito smoldering, caratteristico della combustione lenta, occulta, senza fiamma, in ambienti poco ventilati. La situazione si complicava con alcuni tipi di carbone, potendosi associare ad altri fenomeni; la US Navy, che inizialmente utilizzava antracite estratta dai monti Appalachi, i più antichi delle Montagne Rocciose, passò sul finire del secolo, contrariamente alla pratica ed alle norme impiegate dalla Royal Navy,  all’uso di carboni bituminosi, non solo per ragioni economiche ma anche per una pratica – prevalente sulla teoria – che riteneva profittevole per le alte prestazioni la combustione degli stessi. 

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Una delle caratteristiche dei carboni bituminosi è il notevole rilascio di componenti volatili di cui il più noto, per maggior quantità, era il grisù, una miscela pericolosa ed esplosiva di gas (composto principalmente da  metano).  Tale gas (incubo dei minatori e causa di disastrosi e tragici incidenti in miniera, soprattutto quando il carbone era combinato a vene solforose e di pirite) è esplosivo in concentrazioni comprese tra il 4% ed il 16%, comportando un maggior rischio e potenza esplosiva intorno al 10%. A questi fattori di rischio se ne può aggiungere un altro (e sembra sia stato il caso) facilmente associato al carbone bituminoso: la pirite, un minerale composto da solfuro di ferro noto ed utilizzato sin dall’antichità come acciarino.  Inoltre, un altro fattore rischioso e di possibile combinazione era il tipo di acciaio utilizzato per la costruzione dei carbonili a causa della sua ossidazione. Non ultimo elemento di rischio era lo stato di pulizia dei carbonili, la cui manutenzione costante avrebbe dovuto evitare l’accumulazione di polverino di carbone. Nella prossima parte vedremo le dinamiche dell’evento e della sua controversa inchiesta.

Fine I parte – continua

Gian Carlo Poddighe

 

immagini da USS Maine – analisi cause e conseguenze dell’ esplosione | Gian Carlo Poddighe – Academia.edu   e da wikimedia commons in open access

 

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