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Carlo II Stuart ed il mare – parte II

tempo di lettura: 11 minuti

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livello medio
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ARGOMENTO: STORIA NAVALE
PERIODO: XVIII SECOLO
AREA: OCEANO ATLANTICO
parole chiave: Stuart, Deane

 

Un tale dinamismo poteva fare la fortuna di personalità in grado di congiungere il talento all’ambizione; nell’ambito dell’architettura navale nessuna figura è maggiormente esemplificativa di tali inclinazioni di quella di sir Anthony Deane.
La sua carriera era iniziata come semplice assistente di Christopher Pett ma, per interessamento del solito Pepys (all’epoca Clerk of the Acts), [24] egli sarebbe stato nominato Master Shipwright dell’Arsenale di Harwich nell’Ottobre del 1664.

John Greenhill, Ritratto di sir Anthony Deane (1670 ca.) – National Maritime Museum, Greenwich; BHC2645. John Greenhill (c.1649-1676) – Sir Anthony Deane (c.1638–1721) – BHC2645 – Royal Museums Greenwich.jpg – Wikimedia Commons

La segreta speranza di Pepys era di potersi servire della straordinaria abilità di Deane per scalzare la dinastia dei Pett, cui era politicamente avverso: il disegno non sarebbe andato completamente ad effetto, giacché la carriera del grande Peter Pett, massimo esponente della dinastia e già costruttore della Sovereign of the Seas, nonché Commissario per l’Arsenale di Chatham, sarebbe stata troncata soltanto nel 1667 dal raid olandese nel Medway. [25] Ciò nondimeno, per un felice caso di eterogenesi dei fini, Pepys si sarebbe fatto artefice dell’ascesa del più illustre architetto navale del tardo Seicento; un uomo destinato a divenire ascoltato interlocutore e fidato consigliere del re.

Sempre dal Diario di Pepys leggiamo così che “a mezzodì passai a prendere Deane (giunto recentemente in città) a casa per cenare con me […] e il discorso cadde sulla sua nave – la Rupert – da lui ivi [all’Arsenale di Harwich] costruita; la quale nave riuscì così bene che egli ne trasse grandi onori, ed io alquanto per averlo raccomandato, sostenendo il Re, il Duca [di York] e chiunque altro che si trattasse della migliore nave mai costruita. Egli cominciò poi a spiegarmi il suo modo di calcolare in anticipo il pescaggio che avrà una nave: il quale [modo] è un segreto che il Re e tutti gli altri gli ammirano. Ed egli è il primo a poter giungere, [calcolandola] in anticipo, ad una qualche certezza in tale materia, nel senso di saper prevedere quale sarà il pescaggio di una nave prima che essa venga varata“. [26]

Calcolo dell’area dell’ordinata secondo i due metodi illustrati da Anthony Deane nella sua Doctrine of Naval Architecture: per approssimazione dell’area di un quarto di cerchio, o per scomposizione dell’area in triangoli e rettangoli. Lavery (ed.), Deane’s Doctrine of Naval Architecture, cit., p. 72.

È evidente che in tale circostanza Deane non stesse semplicemente parlando della stima delle linee di carico della Rupert, ma di quanto ne consegue: ovvero del suo celebrato metodo, il primo di cui si abbia riscontro storico, di calcolo dell’effettivo dislocamento di una nave.

Si consideri che sino ad allora – ed ancora sino al XIX secolo, data la complessità dei calcoli adoperati da Deane – la cantieristica inglese avrebbe ragionato in termini non di dislocamento ma di stazza, fissandola secondo la formula convenzionale del Builder’s Measurement, per cui essa veniva calcolata (con notevole margine di approssimazione) dividendo per 94 il prodotto della lunghezza della chiglia (k), per la larghezza al baglio massimo (b), per metà della suddetta larghezza, risultando la formula: (k + b + 1/2 b) / 94.

Nella sua Doctrine of Naval Architecture del 1670 Deane avrebbe illustrato due metodi per calcolare l’area di sezione longitudinale di un bastimento al di sotto della linea di galleggiamento: lo scafo veniva suddiviso per la sua lunghezza in 21 ordinate e l’area di ciascuna ordinata calcolata tramite un’approssimazione dell’area di un quarto di cerchio, oppure scomponendo la stessa in una serie di triangoli e rettangoli (v. figura 7). Le aree delle 21 ordinate erano poi moltiplicate per la distanza intercorrente fra le ordinate, ed il prodotto diviso per il valore della densità dell’acqua onde ottenere il dislocamento del bastimento. [27]

La Doctrine of Naval Architecture, composta da Deane su commissione di Pepys al fine di istruire i costruttori della sua generazione sui più avanzati metodi di progettazione – metodi in considerevole misura ideazione del suo stesso autore – sarebbe stata destinata a rimanere manoscritta, pur avendo larga circolazione all’interno dell’Ammiragliato. [28]

È un peccato che a tale circolazione non sia stata dedicata sufficiente attenzione, mancando per conseguenza una puntuale valutazione del reale impatto dell’opera di Deane sull’evoluzione dell’architettura navale e della cantieristica inglesi. A tal riguardo occorre osservare che la storia dell’architettura navale inglese in età moderna costituisce un argomento generalmente negletto a causa del suo perdurante carattere di sapere empirico: ragion per cui, appena la moderna architettura navale – oramai radicata su solidi fondamenti scientifici – avvertì l’esigenza (invero condensata in un numero ancora troppo esiguo di opere) di riflettere sulla sua stessa storia alla ricerca dei fondamenti della professione, ritenne di individuarli laddove fossero stati enunciati chiari principi fisici mediante opportune formule matematiche. Da qui l’insistenza, anche in opere moderne come l’encomiabile studio di Larrie Ferreiro, sul contributo della scuola francese e dei teorici continentali: apporto condensato per il XVIII secolo in quella pietra miliare che fu il già citato Traité du Navire di Pierre Bouguer. Si tratta di un orientamento di ricerca che penalizza, pertanto, una scuola inglese comunque capace – a prescindere dal periodo di relativa stagnazione del 1706-45 dominato dagli Establishments [29] – di introdurre rilevanti innovazioni sia pure nel quadro di prassi fortemente conservative.
Anthony Deane sarebbe morto solo nel 1721, alla veneranda età di 88 anni, così sopravvivendo ad ambo i suoi patroni: Carlo II era scomparso nel 1685, Samuel Pepys nel 1703. Nel corso della sua lunga carriera, coronata dalla nomina a borgomastro di Harwich e dall’elezione alla Camera dei Comuni per la medesima circoscrizione, egli aveva assistito all’ascesa, al trionfo ed alla caduta della marina forgiata dagli ultimi due re Stuart: un fallimento ben rappresentato dal destino della flotta agli ordini di Lord Dartmouth in quel fatale Novembre del 1688, allorquando le navi del re si ritrovarono impossibilitate dai venti contrari a districarsi dalle secche nei pressi di Kentish Knock, mentre quegli stessi venti sospingevano in porto (a Torbay) l’altrimenti resistibile tentativo di invasione di Guglielmo d’Orange. L’esistenza di un complotto – una Tangerine Conspiracy [30] – volto a paralizzare l’azione della flotta inglese e di cui, a cose fatte, molti parlarono a gran voce onde acquisire meriti presso il nuovo monarca, non poté e continua a non poter essere ragionevolmente provata. Ironia vuole che quella stessa Tangeri che nell’immaginario dell’epoca avrebbe legato il proprio nome alla caduta della dinastia degli Stuart, costituisse un altro frutto – in ultima analisi fallimentare – della vulcanica mente di Carlo II: acquisita la città in qualità di dote della consorte Caterina di Braganza, Tangeri venne immediatamente intesa come importante colonia di insediamento ed emporio destinato a proiettare l’espansione commerciale inglese nel Mediterraneo e lungo la costa occidentale dell’Africa. A tal fine la Corona non lesinò le spese e se, negli anni ’60 del Seicento, i costi per il sostentamento di Tangeri ammontavano alla somma di 75.000 sterline annue, essi crebbero ad 87.500 fra il 1671 ed il 1681: il consuntivo finale dell’avventura africana di Carlo II sarebbe stato valutato da Lord Dartmouth, ultimo governatore di Tangeri, nell’enorme somma di due milioni e mezzo di sterline: spese destinate a non essere ammortizzate, se non in minima misura, dai proventi del commercio.

La costante pressione militare esercitata dai marocchini costrinse il governo ad investire in opere difensive sempre più massicce; ed in breve tempo il morale della guarnigione tangerina, e degli stessi coloni, prese a collassare a fronte di condizioni di vita così disagevoli persino per i rigori dell’epoca. Ingenti somme – a quanto pare un terzo del totale computato da Dartmouth – erano state investite per la costruzione dell’enorme molo voluto da sir Hugh Cholmeley e destinato a fare di Tangeri il grande scalo commerciale che era nella mente del monarca e degli investitori: lungo 450 m e largo 33 m, per 170.000 ton di roccia – tanta ne avevano cavata gli inglesi che le soprastanti mura di Tangeri iniziarono a sprofondare – fu probabilmente la più grande opera di ingegneria pubblica realizzata in quel torno di tempo. Completato soltanto nel 1677, sette anni più tardi il suo destino fu quello di saltare in aria, minato dagli inglesi al momento dell’evacuazione per impedirne l’uso da parte delle forze marocchine. [31]

Wenceslaus Hollar, La rada di Tangeri vista dall’alto, senza la chiusa (1670) – Metropolitan Museum of Art, New York; 62.635.877.

The Merry Monarch
Carlo II Stuart è passato più spesso alla storia come The Merry Monarch per il tono brillante ed edonista della sua corte, per le sue molte amanti e per la morale spregiudicata: figlio di un sovrano decapitato al termine di una sanguinosa guerra civile, uomo che aveva conosciuto la durezza dell’esilio, fu altresì un politico scaltro e singolarmente tenace. Dopo aver sviluppato una precoce predisposizione per il mare a causa delle vicissitudini di quella stessa guerra, ed averla nutrita del piacere sportivo tipico dello yachtsman entusiasta, egli individuò nel mare il mezzo per promuovere le fortune del proprio regno e del proprio casato. A tal fine dispiegò una politica di singolare coerenza, coadiuvato da uomini altrettanto abili e spesso altrettanto spregiudicati, primo fra i quali il Duca di York suo fratello: sin dalla Restaurazione del 1660 e per tredici anni consecutivi Lord High Admiral, ciò ne fece il comandante in capo della flotta che per due volte il re adoperò per muovere guerra alle Province Unite (nel 1665 e nuovamente nel 1672).

Desiderio di affermazione personale, volontà di illustrare la Corona cogli allori della gloria militare, cinico desiderio di arricchire sé stesso ed i propri sostenitori e seguaci: in ciò la politica di Carlo dimostra un’amalgama squisitamente barocca del tutto in linea coi suoi tempi. Al rafforzamento della flotta destinò le energie non solo dello statista capace, ma dell’amatore entusiasta: da qui la volontà di impadronirsi dei segreti dell’architettura navale e della cantieristica, non solo per essere miglior giudice d’uomini in questo campo – e promuovere col proprio patronage le personalità più meritevoli – ma anche secondo la volontà di offrire contributi personali e originali in ambito tecnico.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è STORIA-UK-Charles_II_of_England_Stuart_by_John_Riley.jpeg

Ritratto di Carlo II Stuart, re d’Inghilterra – Olio autore John Riley  (1646–1691) Charles II of England Stuart by John Riley.JPG – Wikimedia Commons

Questi ultimi sono giustamente obliati per via del loro scarso rilievo, mentre il valore di personalità del calibro di Albemarle, Sandwich, Rupert, Lawson, Spragge, Allin fra i comandanti, Pepys fra gli amministratori, Pett e Deane fra i maestri d’ascia, dimostra che il re fu generalmente buon giudice: decine di ufficiali con un passato parlamentarista (e persino fondamentalisti religiosi come Lawson) vennero pragmaticamente riassorbiti nel nuovo regime e si provvide a fare miglior uso dei loro talenti. Il desiderio di promuovere la posizione dell’Inghilterra in ambito internazionale, ed in particolar modo nella competizione commerciale, spinse Carlo sin dal principio ad acquisire, per mezzo di Caterina di Braganza, le nuove colone di Tangeri e di Bombay: la prima di queste, cui avrebbe dedicato le sue maggiori attenzioni, si rivelò un fiasco senza appello. Bombay, per contro, era destinata ad un brillante futuro, sebbene la grande distanza dalla madrepatria e la cronica penuria di fondi delle casse reali la condannassero pel momento al sottosviluppo.

Di fronte a tanta esibizione di talenti ed un tale dispendio di energie vi è da chiedersi perché i risultati fossero, al paragone, così magri, e per qual motivo il nome di Carlo sia stato spesso omesso fra quelli dei fondatori della potenza inglese sul mare. In tal senso le guerre anglo-olandesi incidono pesantemente sul bilancio complessivo dei venticinque anni di regno di Carlo: sebbene gli inglesi cogliessero brillanti successi destinati ad arricchire l’aneddotica delle guerre inglesi sul mare ed a concorrere in misura non irrilevante alla costruzione della stessa tradizionale navale inglese, il lungo conflitto anglo-olandese si risolse in un fiasco: non solo le Province Unite seppero resistere militarmente all’aggressione inglese, ma nell’immediato la perdita di posizioni – economiche, commerciali e militari – patita dagli olandesi non si tradusse affatto in altrettanti guadagni per l’Inghilterra. La genesi di quelle guerre accusava una singolare miopia in termini di grand strategy le cui ragioni – dettate in parte dalle vigenti teorie mercantiliste – ho già avuto modo di illustrare in altra sede: esse riconoscevano un nemico capitale in una nazione, quella olandese, che costituiva più tosto un naturale alleato dell’Inghilterra, i cui interessi non erano necessariamente in contrapposizione; e, per contro, ignorava il pericolo costituito dalla crescente potenza della Francia di Luigi XIV.

Il rovesciamento di fronti prodottosi infine con la Glorious Revolution e l’ascesa al trono di Guglielmo III d’Orange avrebbe rettificato tale miopia, facendo convergere nuovamente le alleanze politiche coi sottesi interessi economici e strategici: ne sarebbe emersa come strutturale, per tutto il secolo successivo, proprio l’alleanza fra Londra e Amsterdam contro Parigi. Ma Carlo II, pur con tutti i suoi difetti e le sue miopie, rimane indiscutibilmente uno dei padri nobili della Royal Navy.

Marco Mostarda

 

NOTE:
[24] La carica di Clerk of the Acts riuniva in sé le incombenze del contabile, tenuto a prendere nota di tutti i contratti e gli ordini riguardanti la Marina, e di segretario incaricato di tenere la corrispondenza con il Lord Grand’Ammiraglio e con i Commissari dell’Ammiragliato, offrendo risposte alle loro richieste e diramandone gli ordini.
[25] Per il raid del Medway, ed il disastro consumatosi all’Arsenale di Chatham che ne derivò, Peter Pett venne convenientemente scelto come capro espiatorio: le accuse che gli vennero mosse in tale circostanza, ovvero di non aver fatto tutto quanto in suo potere per ricoverare i vascelli del re più a monte – fuori della portata degli olandesi – e per non aver tempestivamente suggerito il rafforzamento delle difese di Sheerness, sono dettagliatamente riportate nell’Harleian MS 7018, f. 92, assieme al memorandum di difesa presentato dallo stesso Pett. Ne emerge che, nel pieno dell’attacco olandese, Pett non risparmiò i propri sforzi per mettere in salvo, a bordo di due lance, i piani tecnici, i modelli ed i registri dell’Arsenale: un patrimonio di conoscenze di valore indubbiamente superiore – seppure all’epoca non adeguatamente apprezzato – a quello dei vascelli andati perduti per mano nemica, giacché avrebbe permesso la rapida sostituzione di quelle stesse unità incendiate o catturate dagli olandesi. A tal riguardo cfr. P. G. Rogers, The Dutch in the Medway. Barnsley: Seaforth Publishing, 2017, pp. 166-170.
[26] “At noon took Mr. Deane (lately come to towne) home with me to dinner […] we did then fall to discourse about his ship “Rupert,” built by him there, which succeeds so well as he hath got great honour by it, and I some by recommending him; the King, Duke, and every body saying it is the best ship that was ever built. And then he fell to explain to me his manner of casting the draught of water which a ship will draw before-hand: which is a secret the King and all admire in him; and he is the first that hath come to any certainty before-hand, of foretelling the draught of water of a ship before she be launched.“, in The Diary of Samuel Pepys, Saturday 19 May 1666.
[27] Ferreiro, Ships and Science, cit., pp. 196-199; Marcelo Almeida Santos Neves, Vadim L. Belenky, Jean Otto de Kat, Kostas Spyrou, Naoya Umeda (ed.), Contemporary Ideas on Ship Stability and Capsizing in Waves. Dordrecht – Heidelberg – London – New York: Springer, pp. 151-152. Riguardo al MS della Doctrine of Naval Architecture, cfr. la prima edizione a stampa, in Brian Lavery (ed.), Deane’s Doctrine of Naval Architecture, 1670. Edited and Introduced by Brian Lavery. Annapolis: Naval Institute Press, 1981, pp. 72, 124.
[28] Deane’s Doctrine of Naval Architecture, cit., pp. 7-20.
[29] Si intende per Establishment il complesso delle dimensioni di scafo, fissate dal Navy Board rango per rango, cui gli Arsenali si sarebbero dovuti attenere scrupolosamente nella costruzione di ogni nuova unità destinata alla Royal Navy. Il primo Establishment venne emanato nel 1706, il secondo nel 1719, il terzo ed ultimo nel 1745. La nomina, dieci anni dopo, del celebre e talentuoso architetto navale Thomas Slade all’ufficio di Surveyor of the Navy pose fortunatamente termine a questo periodo di stagnazione tecnica.
[30] N. A. M. Rodger, The Command of the Ocean. A Naval History of Britain, 1649-1815. New York-London: W. W. Norton & Company, 2004, p. 139. Il nome del complotto deriva dal fatto che molti dei sedicenti congiurati – i quali, a dispetto dei molti meriti rivendicati, non fecero altro che inviare un loro emissario ad incontrare segretamente Guglielmo d’Orange – avessero servito nella guarnigione di Tangeri, possedimento inglese dal 1661 al 1684. Lo stesso Lord Darmouth aveva supervisionato l’evacuazione della guarnigione nel 1683-84 in qualità di Governatore; la sua condotta nel 1688, tuttavia, sembrerebbe potersi imputare agli effetti nefasti di una natura oltremodo cauta alle prese con circostanze sfavorevoli.
[31] Per i dettagli sui presupposti, e sui costi, dell’avventura di Tangeri, cfr. Linda Colley, Prigionieri. L’Inghilterra, l’Impero e il mondo, 1600-1850. Torino: Einaudi, pp. 27-36

 

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