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La Prima guerra Punica

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: STORIA NAVALE
PERIODO: V – III SECOLO a.C.
AREA: MEDITERRANEO
parole chiave: Guerre puniche, importanza della flotta
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L’arruolamento degli equipaggi divenne un problema particolarmente rilevante per i Romani verso l’inizio della prima guerra Punica, quando l’imponente incremento delle dimensioni della flotta comportò la necessità di reperire un elevatissimo numero di nuovi nocchieri, rematori e classici milites. Mentre per i primi il possesso di una preventiva esperienza marinara era un requisito prioritario, per gli altri si trattava di una caratteristica sempre auspicabile ma alla quale si poteva comunque ovviare con opportuni accorgimenti. Sappiamo infatti che per poter disporre di armi di voga efficienti, i Romani fecero addestrare le reclute al maneggio dei remi, prima su un apposito allenatore sistemato a terra, e poi nel corso delle prime uscite in mare effettuate per compiere delle esercitazioni di manovre ed evoluzioni tattiche a beneficio della preparazione dei rematori. Per i fanti da imbarcare, invece, non essendo possibile istruire in breve tempo delle reclute prive anche del “piede marino” a combattere efficacemente sulle limitate e instabili superfici dei ponti di coperta delle navi, si ricorse ad un’accurata selezione di quei legionari che davano più garanzie di ben assolvere quell’impegnativo servizio a bordo, potendo essi essere impiegati sia per i combattimenti navali, sia per gli sbarchi anfibi. Questo stesso criterio venne seguito dai Romani anche nei successivi secoli della repubblica: in tutti i casi in cui si rese necessario poter disporre in breve tempo di un consistente numero di fanti da imbarcare, questi vennero tratti direttamente dalle legioni, selezionando il fior fiore delle forze di fanteria, oppure uomini scelti per il loro grande coraggio, tutti volontari.

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La prima guerra Punica fu d’altronde la prima e più importante occasione per la messa a punto dei metodi di combattimento navale dei Romani, con lo sfruttamento ottimale della fanteria imbarcata. Va ricordato che, in quel conflitto, Roma affrontò per mare Cartagine, che era allora la maggior potenza navale del Mediterraneo, con estesi possedimenti nel bacino occidentale, dal Nordafrica alle coste spagnole e alle tre isole maggiori del Tirreno. I Romani dovettero pertanto potenziare considerevolmente le proprie flotte dotandole dello stesso tipo di unità maggiori in possesso del nemico, ovvero delle quadriremi e soprattutto delle quinqueremi. Si trattava di unità da guerra ben più potenti delle triremi ed erano tutte dotate di un ponte di coperta continuo che consentiva l’imbarco di un gran numero di combattenti. Sulle prime loro quinqueremi essi imbarcarono centoventi fanti (78), ma è probabile che ne poterono prendere a bordo un numero anche maggiore sulle quinqueremi di nuovo tipo di cui essi disposero a partire dalla battaglia navale delle Egadi.

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La disponibilità di un contingente armato di rilevanti dimensioni a bordo di ogni quinquereme indusse naturalmente i Romani ad avvalersi prioritariamente di questi combattenti per arrembare e catturare le unità nemiche affrontate per mare. In effetti, due erano i principali metodi di combattimento per imporsi sulle navi avversarie in battaglia navale: lo speronamento, che comportava la perdita della nave colpita, mandata a fondo con la maggior parte del suo equipaggio; l’arrembaggio, che consentiva di impossessarsi della nave abbordata e di tutta quella parte di equipaggio che si era arresa: un ricco bottino che dava splendore alla cerimonia del trionfo, consentiva di abbellire Roma con monumenti rostrati e edifici sacri per ringraziare gli dei, arricchiva con la spartizione del rimanente ricavo sia i comandanti che gli equipaggi. I Romani, che avevano una mentalità pragmatica, hanno sempre prediletto l’arrembaggio, ricercando prioritariamente questa soluzione nel corso dei combattimenti in mare, anche se, ovviamente, nella baraonda degli ingaggi a distanza ravvicinata, con molte navi che evoluivano e si incrociavano manovrando per speronare qualche unità nemica, vi era comunque la necessità di cogliere al più presto qualsiasi opportunità favorevole. Da parte dei Romani furono pertanto effettuati sia degli speronamenti che degli arrembaggi, ma questi ultimi furono normalmente molto più numerosi.

A proposito degli arrembaggi, molti ricordano che i Romani utilizzarono un’apparecchiatura speciale, chiamata “corvo”, per agganciare la nave nemica e salirvi a bordo. In realtà questo marchingegno piuttosto cervellotico è stato citato da un solo autore antico, il greco Polibio, che lo ha descritto come una passerella mobile che, posta a prora delle quinqueremi romane e manovrata come un picco di carico, aveva al disotto della propria estremità una sorta di lunga zanna acuminata destinata ad agganciarsi ai bastingaggi delle unità nemiche giunte entro il raggio d’azione della macchina. L’arrembaggio romano sarebbe dunque avvenuto attraverso quella stretta passerella, sulla quale i combattenti romani potevano solo transitare in fila per due, divenendo inevitabilmente un facile bersaglio per le frecce degli arcieri nemici. Si tratta di una soluzione tecnica tutt’altro che convincente. Un’approfondita analisi di tutti i possibili aspetti della questione ha portato a concludere che questi famosi “corvi” o non sono mai esistiti, oppure si è trattato di un’attrezzatura utilizzata per pochissimo tempo (non più di cinque anni) risultando comunque di efficacia irrilevante, sia sul piano tattico che sotto l’ottica storica.
È dunque di gran lunga preferibile porre la dovuta attenzione a quanto riportano tutte le altre fonti antiche, secondo le quali i Romani effettuarono le proprie azioni di arrembaggio (sia durante la prima guerra Punica che in tutte le battaglie navali combattute nei secoli successivi) utilizzando, per la manovra di affiancamento e abbordaggio delle navi nemiche, le cosiddette “mani di ferro” (manus ferreae), che non erano altro che i normali grappini d’arrembo lanciati in tutte le epoche dalle navi da guerra o piratesche intenzionate a catturare qualche vascello in alto mare. Oltre alle manus ferreae, talvolta fissate a lunghi pali (86), potevano essere utilizzati dei proiettili uncinati più grandi – come l’arpagone (harpago) e l’arpax inventato da Marco Agrippa per la battaglia navale di Nauloco – oltre ad eventuali altre attrezzature marinaresche accessorie.

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La scelta di utilizzare maggiormente l’attacco con l’arrembaggio rispetto a quello con lo speronamento non fu peraltro un’invenzione inattesa e in contrasto con le tradizioni navali precedenti, ma la logica evoluzione della progressiva trasformazione della guerra navale avviata in epoca ellenistica con la costruzione di poliremi di dimensioni ampiamente superiori a quelle delle triremi ateniesi. Se queste ultime imbarcavano mediamente solo 14 uomini armati (10 opliti e 4 arcieri) ed erano quindi costrette a risolvere la battaglia navale con gli speronamenti, le poliremi maggiori erano state concepite proprio per poter imbarcare un numero di combattenti considerevolmente più elevato da utilizzare contro le navi nemiche. I Romani, dunque, non fecero altro che adattarsi alle trasformazioni già avvenute, sfruttando in modo razionale la disponibilità di spazio sul ponte di coperta delle quinqueremi – imbarcandovi sia delle potenti macchine belliche (catapulte, baliste, ecc.), sia un agguerrito contingente di combattenti – e ponendo la massima attenzione al rendimento ottimale della fanteria imbarcata. Questa venne infatti utilizzata sia nella fase di avvicinamento alle navi nemiche, per scagliare proiettili con le grandi macchine belliche, oltre al lancio di frecce e giavellotti a distanza più ravvicinata, sia nella fase a contatto diretto, per arrembare l’unità abbordata e procedere alla sua cattura. In tal modo, la vittoria in mare non fu solo dovuta alla perizia del comandante, del timoniere e dei rematori nell’affondare le navi speronate, ma anche e soprattutto al valore della fanteria navale nel costringere gli equipaggi nemici alla resa, limitando quanto più possibile l’inutile perdita di preziose risorse umane e materiali.
Questa fu dunque l’origine della prima delle due funzioni principali dei classiari, quella relativa al loro impiego in battaglia navale. Questa funzione, come abbiamo visto, ha assunto le proprie caratteristiche fondamentali nel corso della prima guerra Punica, per poi evolversi e affinarsi ulteriormente nell’ambito delle successive esperienze belliche navali del periodo della repubblica. In ogni caso, già in questo primo conflitto contro Cartagine l’impiego della fanteria imbarcata si è rivelato perfettamente messo a punto, visto che ha consentito ai Romani di sconfiggere per mare la maggior potenza navale del Mediterraneo in almeno quattro grandi battaglie navali, inclusa quella decisiva vinta nelle acque delle Egadi.
Abbiamo altresì visto che, per assolvere la predetta funzione in battaglia navale, i Romani hanno inizialmente imbarcato una selezione di legionari particolarmente adatti ad operare e combattere a bordo delle quinqueremi. Nel corso di quello stesso conflitto, tuttavia, la fanteria navale è stata progressivamente organizzata come una componente specialistica, costituita da classici milites inquadrati in reparti ad esclusivo uso da parte delle flotte. Anche se non conosciamo alcun dettaglio di questa organizzazione – più che altro per l’insufficienza delle fonti antiche che ci sono pervenute – sappiamo che venticinque anni dopo la vittoria navale delle Egadi, avendo nel frattempo felicemente vinto altri due conflitti navali (I e II guerra Illirica) e iniziato la seconda guerra Punica, i Romani disponevano di almeno tre legioni di classici milites.
Fine III parte – continua
Domenico Carro
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estratto dal saggio Classiari – Supplemento alla Rivista marittima aprile-maggio 2024 – per gentile concessione della Rivista Marittima dedicato alla memoria del figlio Marzio, corso Indomiti, informatico visionario e socio del Mensa, prematuramente scomparso

 

in anteprima denario in argento di Q. Lutatius Cerco. 109-108 a.C. Zecca di Roma. Testa di Roma (o Marte) con elmo a destra; marchio di valore a sinistra / Galea a destra con testa di Roma a prua; tutto all’interno di una corona di quercia. Crawford 305/1; Sydenham 559; Lutatia 2. Fonte collezione Demetrios Armounta. Ex Classical Numismatic Group Electronic Auction 144 (26 luglio 2006), lotto 239; Classical Numismatic Group 47 (16 settembre 1998), lotto 1173.
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