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NO PLASTIC AT SEA

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Petizione OCEAN4FUTURE

Titolo : Impariamo a ridurre le plastiche in mare

Salve a tutti. Noi crediamo che l'educazione ambientale in tutte le scuole di ogni ordine e grado sia un processo irrinunciabile e che l'esempio valga più di mille parole. Siamo arrivati a oltre 4000 firme ma continuiamo a raccoglierle con la speranza che la classe politica al di là delle promesse comprenda realmente l'emergenza che viviamo, ed agisca,speriamo, con maggiore coscienza
seguite il LINK per firmare la petizione

  Address: OCEAN4FUTURE

Riscoprire la marittimità

Reading Time: 9 minutes

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livello elementare

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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: Maritime heritage, marittimità, Mediterraneo, ruolo dell’Italia

 

L’Italia è al centro del Mediterraneo, un mare che ha una superficie pari allo 0,7% dei mari di tutto il mondo e che ha delle caratteristiche particolari, tra cui il transito giornaliero del 25% del traffico mercantile mondiale. È uno spazio marino determinante su cui affacciano 26 paesi di tre continenti e in cui l’Italia possiede 8.000 km di coste dei 46.000 totali.

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Seguendo le norme internazionali l’Italia ha, inoltre, delimitato la sua Zona Economica Esclusiva (ZEE), che le permette di avere diritti su un’area pari a circa 500.000 km2 (1/5 del Mediterraneo).

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è trasporti-2021-.jpgGià̀ da questi dati si evince il profondo legame che il nostro Paese ha con il mare, una simbiosi che si traduce nell’attività di almeno 60 porti di una certa rilevanza commerciale (senza parlare dell’altra grande componente, il turismo, vera risorsa nazionale, il cui valore andrebbe sommato). Attraverso questi porti entra il 57% delle merci importate (il 90% di quelle energetiche) ed esce quasi il 50% di quelle esportate dal Paese, circa 480 milioni di tonnellate di merci (alla rinfusa ovvero secche e liquide, in container o a bordo dei traghetti).

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L’Italia è, infine, il terminale sud del corridoio centrale europeo, che collega il Mare del Nord e il Baltico al Mediterraneo. Secondo dati molto conservativi l’economia del mare in Italia vale il 2,7% del PIL e genera oltre 500.000 posti di lavoro. Secondo altri dati, forse più aderenti alla realtà, si potrebbe parlare di oltre il 3,2% del PIL e oltre 800.000 posti di lavoro.

Un’economia di molti settori e molte sfaccettature che ha bisogno di tradizioni e continuità, di personale specializzato dalla costruzione alla gestione. Purtroppo, non solo mancano navi ma mancano persone, esperti e spazio per ricostruire la marittimità del Paese.

Questo problema, risultato di decenni di indifferenza, oggi potrebbe aprire molte opportunità su tutto il territorio (e nella proiezione marittima o di vicinato).
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Dal mare, sul mare, sopra e sotto il mare, si genera un valore (e un potere contrattuale enorme) che non è adeguatamente sfruttato. Pur soffrendo di disinteresse, e quasi di abbandono, quella italiana è tra le prime 15 flotte mercantili nel mondo e la seconda europea, è la terza flotta peschereccia d’Europa, la prima flotta al mondo per navi traghetto (cosiddetti Ro-Ro). L’Italia è il primo costruttore al mondo di mega yacht e il secondo per imbarcazioni da diporto. È, inoltre, tra i maggiori ed apprezzati costruttori di navi da crociera, tra i più qualificati costruttori “navali”.

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Malgrado il disinteresse pubblico godiamo di un mondo dello shipping molto qualificato, una Marina Militare che si impone all’attenzione internazionale ed è capace di presidiare capillarmente gli interessi nazionali a livello globale, dall’Artico all’Indo-Pacifico, in quell’ampia regione ormai accettata come “Mediterraneo allargato”. Un’eccellenza di oggi, derivante da un enorme patrimonio che l’indifferenza rischia di far perdere per sempre, ma che sarebbe opportuno (o necessario?) recuperare, cosa non impossibile, se l’opinione pubblica acquisisse una nuova coscienza marittima. Complice la fine della guerra fredda e l’ubriacatura da globalizzazione, che ci ha fatto abbandonare capacità e valori, da decenni il nostro Paese non guarda infatti più con l’indispensabile attenzione alle questioni marittime. Sembra che siamo caduti in una sorta di “sea-blindness”.

Davvero si pensava di vivere di rendita e di terziario?
La globalizzazione, invece, si è dissolta, il mondo si è svegliato e sta già correndo ai ripari attraverso la deglobalizzazione e il reshoring di attività, da quelle industriali a quelle dell’armamento marittimo, ai servizi marittimi. Si tratta di una grande opportunità, ma noi (e anche gli stessi europei) siamo ancora dispersi in beghe interne. I traffici marittimi e il mare, con una nuova concezione del potere navale, saranno i grandi protagonisti del futuro. Siamo preparati? Sul mare, da tempo, viaggia l’economia sostenibile del futuro. Per questo, cavalcando l’immaginario collettivo che vede gli uomini di mare quali scopritori di mondi e portatori di nuove ricchezze, tutti quelli che si considerano protagonisti dell’economia marittima devono concorrere a far riscoprire al paese il suo inestimabile “patrimonio liquido”. Ma per fare questo abbiamo bisogno di istituzioni in grado di invertire la rotta del processo di smembramento delle competenze e delle esperienze marittime. Oggi abbiamo ricevuto un primo, ancora timido segnale di attenzione.

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Il Ministro del Mare c’è (ed è stato un ottimo segnale) ma … manca il ministero! Si parla, troppo e spesso a sproposito, di blue economy, di “crescita blu”, che si basa su molteplici componenti. La chiave del successo è la sinergia tra esse, la decisione immediata e la rapida esecuzione. Ciò implica integrare tutti gli attori del mare in una visione unica, politica e strategica. L’obiettivo dev’essere quello di raccogliere in un unico centro tutti gli attori del mare e le loro istanze nelle varie componenti dell’economia, nelle sue declinazioni di blue growth e di blue economy. La ridefinizione di un “governo integrato” che possa guardare alle recenti esperienze europee e internazionali e imparare da queste esperienze, dialogando proficuamente con le istituzioni europee, in primis.

L’Italia può e deve usare le capacità, le conoscenze e gli investimenti fatti in passato per svolgere un ruolo di guida e di riferimento in sede europea per il rilancio della politica marittima UE nel Mediterraneo, contribuendo a definirne le linee strategiche. È essenziale separare in modo chiaro le competenze tra regolazione, vigilanza e controllo, oggi ancora non chiaramente definite in alcuni (ma sempre troppi) campi. Nel paese è necessario che si sviluppi un adeguato concetto di cluster unico e integrato, e non l’autovalutazione di troppi e inefficaci mini-clusters.

Serve anche una razionalizzazione delle Forze Armate e di polizia, per garantire interventi efficienti e coordinati in un mare moderno, globale, che vede già impegni concreti e continui in tutti i mari del mondo. Una visione integrata e globale, infatti, si ripercuote in economia di scala, si ripercuote nel vicino, nel locale, con una riduzione dei costi e maggiore efficienza. Si stima che in Italia la blue economy abbia raggiunto negli ultimi anni un valore di circa 130 miliardi di euro ed è facile prevedere le ingenti risorse che verrebbero liberate e moltiplicate se il paese attivasse concretamente il suo potenziale inespresso.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 2021-confitarma-dati-mercantile.jpgPurtroppo, malgrado gli sforzi profusi da tutti gli attori del cluster marittimo, bisogna ancora combattere con due processi concomitanti, attivi e forti. Il processo di “de-marittimizzazione” del paese e quello di ”multi clusterizzazione”, che producono una corsa suicida, concorrenziale, a ripartirsi, anzi sottrarsi, le scarse risorse reperibili (non tutte ancora disponibili).

Dobbiamo uscire da questa perniciosa sea-blindness
Maggior impegno di privati e dell’industria a controllo pubblico, maggior ragione e necessità di coordinamento e protezione degli interessi italiani, un onere che per la parte marittima, e per la tendenza dai traffici all’incremento delle attività esplorative e produttive in mare, l’impegno ricade sulla marina italiana, tutta, quella marina che è una sola, Mercantile e Militare, ma che comprende anche cantieristica e logistica.

Una Marina Mercantile che non ha abbastanza navi specializzate, di bandiera, armatori che devono ricorrere alle rischiose costruzioni asiatiche perché interi settori di costruzione sono stati abbandonati con una miope ottica di momentanea convenienza economica e senza nessuna strategia nazionale.

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Una Marina Militare che deve far fronte a molti impegni, su distanze sempre più grandi, come unico sostanziale riferimento dello Stato italiano in acque lontane, quasi tutte insicure.
La dirigenza del nostro Paese sembra far fatica a ricordare che la Marina Militare è una sorta di certificato di assicurazione per tutto il sistema economico e securitario nazionale, valido anche all’estero, molto più della “carta verde” a cui siamo abituati nelle nostre escursioni. Senza la Marina Militare che pattuglia le acque di interesse nazionale, i bilanci delle imprese nazionali verrebbero drasticamente ridotti. Una Marina Militare non abbastanza grande per tutelare tutti gli interessi nazionali, ovvero quelli di una media potenza regionale ma con interessi globali che deve rivestire posizioni di grande Paese se vuol sopravvivere, e deve dimostrare di esserlo, anche con una Marina adeguata. L’Italia deve quindi passare rapidamente da Paese penalizzato dalla globalizzazione a protagonista o coprotagonista del nuovo ordine. Non solo gli Stati devono condividere obiettivi comuni quali sicurezza, economicità, sostenibilità, ma anche i soggetti, gli attori, operanti in ogni singolo Stato devono farlo.

Nel caso italiano, più che essere in disaccordo sugli obbiettivi, non c’è condivisione su come perseguirli e a quali costi, con relative attribuzioni. Queste divergenze si esprimono nel voler evitare i costi o non volerne affrontare al di fuori del proprio perimetro, del tutto teorico e artificiale, in modo da evidenziare i propri risultati e (forse) lo status e la competitività delle singole imprese o settori. Ciascuna delle parti in gioco punta al massimo beneficio eludendo i costi, ma in realtà, a parte spesso roboanti maquillage, consegue un risultato inferiore a quello possibile attraverso cooperazione e relativa integrazione di sistema.

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Malgrado si invochi una sempre più stretta interdipendenza tra i diversi settori, ci si richiami al “Sistema Paese”, nei fatti continuano a prevalere egoismi, furbizie e contrapposizione: una realtà costosa e perdente. Occorre dar forma, da parte dei decisori, a una misura strutturale (e gli strumenti momentaneamente disponibili, dal PNRR ai PCI comunitari sarebbero disponibili e lo consentirebbero). Significa dar forma e contenuti a concetti strategici che, peraltro, alla base sembrano finalmente prendere forma ed essere condivisi tra alcuni degli attori nazionali. Bisogna solo vedere quanto questi concetti verranno recepiti, anche alla luce di riaffioranti gelosie e contrasti in difesa di rendite di posizione, e quanto trasformati in provvedimenti e tutele da parte della politica.

CONFITARMA, nella sua corretta e coraggiosa politica di difesa non solo della categoria ma di tutti gli interessi nazionali, nel suo rapporto 2022 ha di fatto delineato la strategia mercantile del Paese. Da parte sua il Ministro della Difesa non solo ha dato un importante segnale in tal senso, ma un primo contributo di notevole importanza emanando a maggio 2022 una direttiva, “Strategia di sicurezza e difesa per il Mediterraneo” che punta, secondo il comunicato che l’accompagna, a un’azione coordinata interforze e inter-agenzia non limitata alle acque vicine, ma a tutta l’area che rappresenta il collegamento (e le tensioni) di tre continenti e delle rotte tra l’Atlantico e l’Indo-Pacifico.

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Ambo i documenti definiscono le aree la cui sicurezza costituisce una priorità dell’Italia, visto il ruolo che può giocare in questo contesto, in funzione della sua geografia, dei suoi legami politici e diplomatici e delle sue capacità militari, che rappresentano un valore aggiunto nell’ambito delle alleanze di riferimento del nostro Paese, a partire da NATO e Unione Europea. In tale ambito è stata identificata un’area marittima di intervento costante di almeno due milioni di chilometri quadrati, con ulteriori necessità di proiezione imposte dall’espansione di attività ed interessi vitali per il nostro paese, quelle energetiche in primo luogo. Gli obiettivi sono molteplici, dalla difesa delle linee di comunicazione marittime al controllo del dominio subacqueo, dalla salvaguardia delle attività economiche in alto mare alla protezione delle flotte nazionali (mercantile, da lavoro e peschereccia), fino alla protezione dei mezzi appartenenti anche ad altri corpi statali.

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Il problema, e la sua soluzione, non è però settoriale, non riguarda solo la Marina Militare, non riguarda concessioni al bilancio della Difesa, è il problema della marittimità del paese e della sua dipendenza dal mare, mai così evidente come negli attuali frangenti. Un provvedimento realmente efficace, contingente, sarebbe quello di un programma marittimo integrato, con una legge che bilanci gli interventi sulla negletta Marina Mercantile, modulandola e rafforzandola sulle attuali esigenze, la cantieristica come innovazione e reshoring, l’energia come emergenza e collante di solidarietà, motivazione e bilancio finale positivo. Gli attuali accordi per la sicurezza energetica comportano un’enorme spesa pubblica, comunque inevitabile, ineludibile, spesa che si può però massimizzare quale investimento su capacità interne, su valore aggiunto nazionale, al di là degli immediati calcoli economici e di molto discutibili maggiori tempi di implementazione di un sistema nazionale. Servono più navi e il loro acquisto è inevitabile.

Bisogna certamente guardare avanti, ma qualche volta ricordarsi di soluzioni ed esperienze del passato non farebbe male. Ricordarsi magari dei programmi e degli interventi che nei primi anni ‘50 dello scorso secolo portarono alla ricostruzione della flotta mercantile italiana, soprattutto quella privata. Occorre rompere la spirale degli acquisti all’estero di unità, speciali e non, e a questo fine – l’interesse nazionale – dovremmo accettare ipotetici e anche eventuali maggiori costi e iniziali tempi di consegna più lunghi di costruzioni nazionali (e non è detto che tali stime negative siano poi la realtà).

Per quanto attiene alle infrastrutture, possiamo offrire la maitrise d’oeuvre italiana (e il valore aggiunto che ne deriva), ed eventualmente un coordinamento italiano su un programma comune europeo. Oggi, infatti, non paghiamo solo i conti facendo ricchi concorrenti e avversari, ma soddisfiamo le nostre necessità ricorrendo al più lontano ristorante cinese (… all can you eat …), che offre prezzi bassi, quantità, varianti esotiche (ma ignote) tutte servite a domicilio, creando dipendenze. Bisognerebbe, invece, pensare alla tradizionale trattoria di prossimità, forse un pò più cara, ma più salutare e sempre disponibile in caso di imprevisti ed emergenze.

Gian Carlo Poddighe

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