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Corsari romani – parte I

tempo di lettura: 6 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: STORIA ROMANA
PERIODO: III SECOLO a.C.
AREA: DIDATTICA
parole chiave: Roma

 

Se davvero non vogliono mangiare, almeno bevano!” esclamò beffardamente il console Publio Claudio Pulcro, stizzito del responso negativo fornito dal pullario nel constatare che i polli sacri non uscivano dalla loro gabbia per andare a mangiare. Quell’auspicio chiaramente infausto, verificatosi proprio sul ponte della sua nave ammiraglia, risultò insopportabile al comandante in capo romano, visto ch’egli voleva attaccare immediatamente la flotta punica ormeggiata a Trapani, sicuro di coglierla di sorpresa. Ordinò pertanto di gettare quella gabbia a mare e si diresse con la sua flotta di 120 quinqueremi verso la più vicina imboccatura del porto [1].

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Aes signatum in bronzo del III a.C. (RRC 2, 12/1). Sul dritto, due polli sacri apparentemente intenti a beccare, con in mezzo due stelle, protettrici dei marinai. Sul rovescio, due rostri navali, probabilmente collegati ad una delle vittorie navali della prima Guerra Punica, e due delfini. (da G. Foti, Funzioni e caratteri del «pullarius» … cit., pp. 99-100).

Per i Romani, i polli in questione non erano una “specie protetta”, né erano oggetto di specifici tabù religiosi, ma il comportamento sprezzante del console fu comunque un errore imperdonabile perché fornì agli equipaggi la sensazione di affrontare il combattimento in un contesto nefasto e, pertanto, di andare incontro ad una inevitabile sciagura. Cosa che si verificò puntualmente. La superbia e l’impulsività erano sempre stati i difetti congeniti della gens Claudia, ma in nessun’altra occasione avevano provocato delle conseguenze di tale gravità.

Affogato il pollame, l’arroganza del console si era ben presto tramutata in viva preoccupazione e poi nel disperato tentativo di salvare il salvabile, perché la contromossa dei Cartaginesi, usciti dall’opposta imboccatura del porto mentre le navi romane ancora stavano entrando, aveva scompaginato a tal punto la flotta del console da far subire ai Romani la prima ed unica grande sconfitta navale della loro storia. Il console riuscì a portare in salvo solo una trentina delle sue navi – con un temerario stratagemma che ingannò il nemico[2] – mentre le rimanenti caddero in mano punica.

E siccome le disgrazie non vengono mai sole, l’esiziale psicosi dei perdenti si impadronì anche della seconda flotta, comandata dall’altro console, Lucio Giunio Pullo. Costui, per sottrarsi all’ingaggio del nemico affrontò nel modo peggiore la burrasca, venendo quindi sconfitto da questa anziché da quello [3]. In tal modo i Romani, nell’arco di una sola estate, persero entrambe le flotte di cui disponevano: in totale un migliaio di navi, da guerra ed onerarie [4].

Per quanto forte e bene organizzata, nessuna grande potenza del mondo antico avrebbe mai potuto continuare a sostenere un conflitto eminentemente navale, qual era la prima Guerra Punica, dopo una perdita di quelle dimensioni, a meno di non ricorrere a qualche espediente non convenzionale: ad esempio fomentando la pirateria, come fecero in tempi successivi i re d’Illiria e diversi altri sovrani e tiranni ellenistici, quali Filippo V di Macedonia, Nabide di Sparta, Antioco III il Grande, re di Siria, e soprattutto Mitridate VI Eupatore, il crudele e spietato re del Ponto. Una soluzione di tal genere sarebbe stata poco coerente con la mentalità dei Romani, che erano destinati a combattere una lunga serie di guerre contro i pirati, considerati i comuni nemici dell’intera umanità [5].

Dunque, i pirati no; ma ciò non esclude i corsari
Sebbene i due termini vengano spesso utilizzati come sinonimi, vi è fra di essi una profonda differenza concettuale, poiché il pirata è un fuorilegge che utilizza le navi per assalire le sue prede (altro naviglio o siti costieri) a scopo di rapina o per ottenere il pagamento di riscatti, il tutto ad esclusivo beneficio delle proprie tasche, mentre il corsaro agisce su mandato del proprio governo contro obiettivi scelti in modo tale da colpire i nemici della Patria, essendo peraltro autorizzato a trarne qualche guadagno a parziale compensazione dell’impegno profuso.

Va anche osservato che, sebbene i Romani avessero perfettamente messo a fuoco la figura del pirata (tanto che questo termine ci è pervenuto dal latino rimanendo inalterato), essi non potevano avere alcuna cognizione del nostro concetto di corsaro, poiché nel mondo antico tale ruolo non era ancora stato definito. I corsari nacquero infatti in epoca medievale nel Mediterraneo, ove la lotta armata condotta da privati per catturare navi mercantili nemiche venne chiamata guerra di corsa e risulta ben documentata perlomeno a partire dal XII secolo, molto prima che il fenomeno si estendesse anche all’oceano.

Quanto ai Romani, essi si sono trovati a porre in atto un’inedita guerra di corsa condotta da privati cittadini autorizzati ad agire come veri e propri corsari, sia pure ante litteram, nel corso della fase più critica della prima Guerra Punica.

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Il primo dei rostri navali romani recuperati, fra la decina di reperti consimili rinvenuti negli anni recenti nelle acque delle Egadi: lato destro e aspetto frontale, con le incrostazioni marine che presentava prima del restauro. (Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia)

Questo epico conflitto era stato affrontato da Roma per respingere l’espansione cartaginese che, avendo già raggiunto Messina, costituiva un’inaccettabile minaccia nei confronti della nostra Penisola e del traffico marittimo fra il Tirreno e lo Ionio. Per i Romani, dunque, quella non fu solo una guerra per il possesso della Sicilia, ma anche e soprattutto una guerra per il libero utilizzo del mare. D’altronde Cartagine era, di gran lunga, la maggiore potenza navale del Mediterraneo, nonché l’indiscussa, vigile e gelosa detentrice del controllo del mare [6]: nessun risultato utile avrebbe quindi potuto essere conseguito contro di essa senza prima aver ridotto all’impotenza le sue flotte da guerra.

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il compianto professor Tusa con uno dei rostri recuperati alle Egadi

Roma si era pertanto dotata anch’essa di grandi flotte di quinqueremi, come quelle puniche; aveva accuratamente addestrato centinaia di equipaggi ed aveva affrontato la rivale per mare con ferma determinazione, riportando su di essa una serie ininterrotta di smaglianti vittorie navali – Milazzo, Tindari, Ecnomo, Capo Bon – intervallate da altri importanti successi negli sbarchi navali in costa (Segesta, Sardegna, Corsica, Kelibia, Pantelleria, Palermo). Tutte queste operazioni vittoriose, avvenute nell’arco di un decennio[7] e funestate solo da due naufragi provocati da burrasche di eccezionale violenza[8], erano state salutate dalla popolazione dell’Urbe con incontenibile entusiasmo ed avevano determinato la celebrazione di ben otto trionfi, di cui quattro specificamente “navali” per le vittorie conseguite in mare[9].

 

Domenico Carro

Note
[1] Così iniziò l’infelice battaglia navale di Trapani (249 a.C.), a proposito della quale gli scrittori romani hanno posto l’accento sulla questione degli auspici (Val. Max. 1, 4, 3; Flor. epit. 1, 18, 29; Eutr. 2, 26); il commento di Cicerone sottolinea l’ininfluenza degli auspici sull’esito delle battaglie, ma condanna il mancato rispetto delle prescrizioni religiose e delle usanze patrie (Cic. div. 1, 29; 2, 20 e 71). Ignorare gli auspici equivaleva a rompere “l’equilibrio con gli dei” (la pax deorum): G. Foti, Funzioni e caratteri del «pullarius» in età repubblicana e imperiale, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», LXIV-II, (2011), p. 97
[2] Passò davanti alle navi puniche che potevano intercettarlo, ostentando i segnali di vittoria come se avesse già sconfitto tutte le altre (Frontin. strat. 2, 13. 9)
[3] Raggiunse Lilibeo con due sole quinqueremi (Diod. 24, 1), mentre tutte le altre navi affondarono o divennero inservibili per i danni subiti.
[4] Pulcro fu condannato dal popolo, Pullo si suicidò (Cic. nat. deor. 2, 7)
[5] Cic. off. 3, 107
[6] I Cartaginesi erano convinti che, senza la loro approvazione, i Romani non avrebbero nemmeno potuto mettere in mare le loro navi (Diod. 23, 2)
[7] Dal 260 al 250 a.C.. Per una ricostruzione di questi eventi sulla base delle fonti antiche: D. Carro, Classica (ovvero “Le cose della Flotta”). Storia della Marina di Roma. Testimonianze dall’antichità: I. Le origini – II edizione, Roma 2000, pp. 48-69
[8] Nelle acque al largo di Punta Secca (255 a.C.) e di Capo Palinuro (253 a.C.), con una perdita complessiva di oltre 400 navi.
[9] A. Degrassi, Inscriptiones Italiae, vol XIII – Fasti et Elogia, fasc. I – Fasti Consulares et Triumphales, Roma 1947, pp. 548-549

 

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