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livello elementare
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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: CINA
parole chiave: Sud Est asiatico, potere marittimo, asse russo-cinese
L’Indo-Pacifico nel suo più ampio contesto marittimo, territoriale, demografico ed economico rappresenta certamente, nella realtà mondiale odierna, la parte di mondo su cui si concentra maggiormente l’attenzione della comunità internazionale.
Si tratta di una vastissima area geografica, che include migliaia di chilometri di costa asiatica e due importanti penisole (Corea e Vietnam), che comprende la moltitudine di isole che si distendono dall’Oceano Indiano fino ai grossi arcipelaghi che sorgono vicino alle coste (Giappone, Filippine, Indonesia), per arrivare alle più lontane e consistenti strutture continentali (Nuova Guinea, Australia, Nuova Zelanda), e alle minuscole isole della Micronesia o alle isole Hawaii e alla costa americana, dal Canada al Cile.
Una regione immensa che oggi sta attraversando un periodo di intenso fermento evolutivo e che è alla ricerca di nuovi equilibri, capaci di tener conto della sua complessa realtà in continuo mutamento. Un’area geopolitica caratterizzata da un elevato tasso di crescita, che ha determinato lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale, ma anche da una notevole disomogeneità, che si traduce in interessi assai diversificati e, non di rado, contrastanti. Ciò ha implicazioni sul piano della sicurezza e della stabilità internazionale perché, in un quadro di accentuata interdipendenza quale quello odierno, gli eventi che si sviluppano in questa vasta area hanno la capacità di influenzare anche il resto del mondo. In tale contesto emerge chiaramente il ruolo dinamico e il contributo determinante della Cina che, da sola, contribuisce per il 30% circa alla crescita mondiale e si pone come potenza egemone dell’area, provocando importanti effetti anche sugli equilibri strategici globali. È pertanto intuibile come la nuova e maggiormente assertiva politica cinese, che si traduce sia nell’inflessibilità sulle questioni di Taiwan e del Tibet che nelle decise rivendicazioni territoriali e dei confini marittimi, possa suscitare inquietudine soprattutto nei vicini più esposti, dal sud-est asiatico al Giappone. Se poi consideriamo che le relazioni internazionali in Asia generalmente si basano sul sospetto e su una diffusa mancanza di fiducia reciproca, residuo di storici conflitti irrisolti e di rivalità ataviche, comprendiamo come tutta l’area sia caratterizzata da una diffusa fragilità dei delicati equilibri di volta in volta faticosamente raggiunti1 e come appaia giustificata una tale inquietudine.
A differenza del teatro europeo, infatti, una guerra maggiore fra grandi Paesi è tutt’altro che impensabile in questo continente, arena dei maggiori contenziosi del mondo contemporaneo. Basti pensare alle persistenti tensioni tra India e Pakistan, tra India e Cina, fra le due Coree e tra la Cina e Taiwan (con gli Stati Uniti sullo sfondo), la disputa sulle risorse sottomarine del Mar Cinese meridionale, che interessa otto Paesi, le rivendicazioni sulle disabitate isole Senkaku (o Diaoyu, come le chiamano i cinesi) contese con il Giappone, sulle isole Paracelso, contese con il Vietnam, e sulle isole dell’arcipelago delle Spratly, contese da Vietnam, Filippine, Cina, Malaysia, Taiwan e Brunei, ma trasformate dalla Cina in una base militare con piste aeree e missili antinave. Se consideriamo anche alcuni contenziosi “minori” si arriva a più di una ventina di potenziali cause di conflitto, che vedono quasi sempre presente la Cina, in un modo o nell’altro. D’altronde, quando si parla di Repubblica Popolare Cinese, bisogna ricordare che tra i suoi obiettivi principali dichiarati vi sono la riunificazione della Cina (con chiaro riferimento a Taiwan) e la riaffermazione dei suoi “diritti storici” su gran parte del Mar Cinese meridionale. Una chiara indicazione delle sue mire espansionistiche e un evidente avvertimento agli altri paesi rivieraschi. Va inoltre ricordato che l’Asia è l’area del mondo dove è presente la maggiore quantità di armi. Le spese per la difesa sono infatti aumentate enormemente negli ultimi vent’anni, nonostante le diffuse crisi economiche e, oggi, sanitarie. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) sei Paesi dell’area (India, Cina, Australia, Pakistan, Vietnam e Corea del Sud) rappresentano circa il 50% della crescita mondiale di importazioni di armamenti. In tale ambito, la Cina è il Paese che sta spendendo più di tutti al mondo per l’acquisizione di materiale di armamento dall’estero. Le spese militari cinesi sono complessivamente così elevate che, secondo alcuni commentatori, la Cina è al secondo posto nel mondo, dietro solo a Washington.
Lo stesso Istituto, inoltre, sottolinea la presenza in quell’area di ben sei Paesi dotati di armamenti nucleari (Cina 320, India 150, Russia 6.375, Stati Uniti 5.800, Pakistan 160 e Corea del Nord 30-40), ai quali si aggiungono le dichiarate pulsioni nella stessa direzione del Giappone e della Corea del Sud. Le principali associazioni regionali. Ad accrescere le preoccupazioni della comunità internazionale circa la stabilità dell’area c’è il fatto che in Asia non esistono organizzazioni di sicurezza collettiva simili alla NATO, né trattati multilaterali per la riduzione delle tensioni e degli armamenti, tutti elementi che hanno alleggerito le ultime fasi della Guerra Fredda e sono stati determinanti, in parte, per il suo superamento e per la costruzione di un ambiente di confidence building.
Esistono, invece, un certo numero di associazioni, organizzazioni e simposi sub-regionali prevalentemente economiche e fondamentalmente deboli, dove in sostanza finiscono quasi sempre per prevalere gli interessi nazionali, tant’é che si sono sinora rivelate sedi inadeguate per la composizione dei vari contenziosi tra Stati asiatici e che appaiono non avere gli strumenti necessari per appianare le dispute nel caso che alle parole si dovesse passare a un confronto più muscolare.

Association of South East Asian Nations (ASEAN), che include Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam
La più nota di queste è l’Association of South East Asian Nations (ASEAN), nata nel 1967 essenzialmente con funzioni politiche di contenimento delle influenze comuniste. Per quanto essa svolgesse un ruolo anche sul piano degli equilibri della regione (sicurezza comune, limitazione degli armamenti, composizione dei conflitti), la presenza di opinioni ampiamente differenti sui processi politici e di governo (comprese le pratiche in settori quali il suffragio e la rappresentanza politica), il ventaglio di tipologie di governo (che vanno dalla democrazia alla repubblica popolare), le diverse impostazioni economiche (dal capitalismo al socialismo) hanno sostanzialmente reso infruttuose le riunioni sulle questioni strategiche relative alla sicurezza. Ciò ha fatto in modo che, con il tempo, essa abbia perso l’originaria connotazione anticomunista che, per tanti anni, era stata la sua principale ragion d’essere, e sia passata a occuparsi prevalentemente di aspetti economico-commerciali, settore nel quale è risultato meno difficile giungere a un efficace compromesso tra le varie posizioni. Altri gruppi separati permettono a Cina, Giappone e Corea del Sud di interagire con l’ASEAN.

Shanghai Cooperation Organization, che include Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan
Abbiamo poi la Shanghai Cooperation Organization, per arrivare al South Asian regional cooperation group, i cui membri sono Afghanistan, Bangladesh, Buthan, India, Maldive, Nepal, Pakistan e Sri Lanka. Cina, Stati Uniti, Giappone, Iran e Unione Europea vi partecipano come osservatori. Dopo otto anni di negoziati, infine, il 15 novembre è stato formalizzato il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che include le dieci economie dell’ASEAN oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia.
Un accordo raggiunto proprio per effetto di una crescente tendenza globale al protezionismo, principalmente alimentata dall’America first dell’amministrazione Trump, che ha fornito ai Paesi partecipanti le motivazioni per avviare quest’area di libero scambio.
Ciò nonostante, pur trattandosi di organizzazioni che si vantano di rappresentare miliardi di persone, non hanno minimamente contribuito neanche a chiarire come gestire le dispute sulle decine di isolette e le aree marittime del Mar Cinese Meridionale.
Esse sembrano, infatti, strutturalmente incapaci di mediare in caso di conflitto, per esempio, tra India e Pakistan o tra Cina e Stati Uniti per Taiwan. Eccellente palcoscenico quando si tratta di cooperazione economica, comparsate mediatiche, esercizi simbolici e fugaci strette di mano, appaiono prive di qualsiasi valore reale per il mantenimento o il ristabilimento della pace nel caso i conflitti dovessero riguardare grossi e importanti Stati. Tuttavia, la loro esistenza consente alla Cina di rafforzare la sua sfera economica e politica di influenza, accrescendo la sua capacità di competere con gli Stati Uniti nell’area. L’India, unica economia che avrebbe potuto bilanciare il gigante cinese, non fa parte dell’ultimo accordo per scelta di Nuova Delhi, che si é ritirata dai negoziati nel 2019, facendo definitivamente tramontare l’idea che la Cina possa essere isolata, in un contesto di economia globale.
Fine parte I – continua
Renato Scarfi
Ufficiale superiore pilota della riserva della Marina Militare Italiana – scrittore e blogger
1 “Peace looks fragile in Asia”, di Paul Dibb, uno dei massimi esperti militari del Pacific Rim e direttore del Centro per gli Studi Strategici di Camberra, sull’International Herald Tribune 19 giugno 2002 (articolo ripreso anche dal New York Times)
2 Peter Frankopan, Le nuove vie della seta, Mondadori, 2019, pag. 104
articolo pubblicato originariamente su Difesaonline
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è un ufficiale pilota della Marina Militare in congedo. Ha frequentato il corso Normale dell’Accademia Navale e le scuole di volo della Marina Statunitense dove ha conseguito i brevetti di pilotaggio d’areo e d’elicottero. Ha ricoperto incarichi presso lo Stato Maggiore della Difesa, il Comando Operativo Interforze, lo Stato Maggiore della Marina, la Rappresentanza militare italiana presso la NATO a Bruxelles, dove si è occupato di strategia marittima e di terrorismo e, infine, al Gabinetto del Ministro della Difesa, come Capo sezione relazioni internazionali dell’ufficio del Consigliere diplomatico. E’ stato collaboratore della Rivista Marittima e della Rivista informazioni della Difesa, con articoli di politica internazionale e sul mondo arabo-islamico. È laureato in scienze marittime e navali presso l’Università di Pisa e in scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Trieste e ha un Master in antiterrorismo internazionale. È autore dei saggi “Aspetti marittimi della Prima Guerra Mondiale” e “Il terrorismo jihadista”.
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