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livello elementare
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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: CINA
parole chiave: sviluppo sostenibile
Le polemiche tra negazionisti e fondamentalisti ambientali spesso distolgono dal problema di base ovvero come mitigare i cambiamenti climatici in atto. Inoltre, non sempre aiutano a comprendere come i regimi politici delle super potenze potrebbero realmente contribuire in maniera efficace alla loro mitigazione. Sebbene l’attenzione mondiale sia molto alta, esistono eventi, come l’annuncio del governo statunitense di ritirarsi dall’accordo di Parigi, che provocano di “rimbalzo” un rallentamento dei progetti di trasformazione dei sistemi energetici, facendo discutere su un futuro che sappiamo non può attendere. Che ci piaccia o no, le politiche attuate dalle superpotenze hanno una ricaduta sostanziale sul nostro futuro.
In un recente studio di Anita Engels, del Centre for Globalisation and Governance, dell’Universität di Hamburg, Germania, viene affrontato il potenziale ruolo della Cina nella mitigazione dei cambiamenti climatici. Di fatto, dal 2008, il governo cinese sembra essere passato a una posizione proattiva sulla governance del clima e sullo sviluppo a basse emissioni di carbonio. A causa di significativi risultati e di un chiaro rallentamento dell’aumento delle emissioni totali annue di CO2, la Cina sembra quindi assumere una leadership globale per la mitigazione del clima. Sarà vero?
Il mondo è stato testimone del primo aumento globale delle emissioni di carbonio nel 2017, dopo tre anni senza crescita va considerato il ruolo di leadership della Cina verso un futuro ecosostenibile. A livello globale stiamo assistendo ad importanti passi avanti, con una proliferazione di attori, forme e livelli di governance che portano ad un multi-lateralismo ibrido con esiti geopolitici ancora incerti. Di fatto il cambiamento del clima influisce sulle economie globali creando nuove aree di instabilità. Ci si domanda se questo è veramente compreso dalle super potenze o se perseguano politiche di protezionismo che non fanno che esacerbare le crisi future.
L’annuncio del ritiro statunitense dall’accordo di Parigi e le reazioni frenanti di alcuni Paesi che esprimono titubanza verso le cause che stanno provocando i cambiamenti climatici stanno causando gravi rallentamenti sulle azioni concordate da intraprendere per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. In questo contesto, la Cina ha adottato obiettivi di riduzione relativi e assoluti delle sue emissioni di CO2 entro il 2030 (Repubblica Popolare cinese, 2015). Gli osservatori internazionali sostengono che la Cina abbia introdotto politiche vigorose che hanno di fatto già ridotto efficacemente le emissioni di carbonio.
Per decenni l’economia cinese è stata pesantemente dipendente dai combustibili fossili, in particolare l’uso del carbone ad uso domestico, con una rapida crescita del consumo di energia e delle relative emissioni di CO2 fino al 2010 (Fig. 1). Tuttavia, a partire dal 2008, il governo cinese ha adottato una posizione proattiva nei confronti della politica ambientale. In seguito all’introduzione del piano quinquennale (2011-2015) è stato introdotto un nuovo modello di sviluppo a basse emissioni di carbonio.
Il rapido successo della Cina nel limitare le proprie emissioni di CO2 ha sorpreso molti osservatori; di fatto questo successo sembra derivare da un aumento dell’impiego delle fonti rinnovabili e da una diminuzione della produzione e del consumo di carbone (vedi Fig. 1). L’aumento dell’uso di energie rinnovabili ha implicato un rapido sviluppo della capacità domestica installata, iniziato nell’ambito del meccanismo di sviluppo pulito (CDM) previsto dal Protocollo di Kyoto.
Come conseguenza dei continui massicci investimenti cinesi nelle fonti rinnovabili, la Cina è emersa come uno dei principali produttori di tecnologie eoliche e, in alcuni segmenti dell’energia solare, eolica e idroelettrica, ed è diventata anche un Paese fornitore di tecnologie innovatrici per il resto del mondo.
La diminuzione dell’impiego del carbone ha compreso una diminuzione complessiva dell’intensità energetica della produzione industriale e la promozione di tecnologie pulite. Di conseguenza, il tracker di azione per il clima (CAT), nel novembre 2017, nella sua revisione dei cosiddetti contributi determinati a livello nazionale (NDC) ha sottolineato come “le emissioni di CO2 della Cina sembrano aver raggiunto il picco più di un decennio prima dell’impegno di Parigi“.
L’ultima analisi del CAT indica che le emissioni di CO2 potrebbero aver già smesso di aumentare e raggiungere i livelli di picco. Sulla base di un’estesa analisi macroeconomica della struttura economica industriale della Cina, Green e Stern hanno concluso che “le emissioni di CO2 della Cina da energia, se crescono, probabilmente cresceranno molto più lentamente rispetto al vecchio modello economico e avranno un probabile picco ad un certo punto nel decennio prima del 2025 “.
Questi possono essere visti come indizi importanti di sforzi verso modelli di crescita a basse emissioni di carbonio in Cina, ma ci possiamo domandare quali siano le vere dinamiche trainanti dietro questi cambiamenti.
Qualsiasi passaggio allo sviluppo a basse emissioni di carbonio si basa su precondizioni e requisiti sociali complessi. Lo studio della Engel discute le ragioni per le quali l’efficacia a lungo termine del regime autoritario della Cina nel ridurre le emissioni di gas serra potrebbe al meglio essere incerta, a causa di contestazioni interne, bassa partecipazione di imprese pubbliche e private e strategie compensative per assicurare le posizioni di mercato globali della Cina.
Comprendere la natura del possibile ruolo di leadership della Cina nel passaggio a basse emissioni di carbonio ha importanti implicazioni per il confronto dei potenziali di decarbonizzazione a lungo termine tra il processo decisionale tecnocratico nei regimi autoritari e il processo decisionale democratico nei sistemi pluralistici.
Non ultimo è necessario comprendere il loro processo decisionale in modo da potersi relazionare con il Dragone rosso. L’analisi analizza i fattori che guidano (driver) il passaggio verso sviluppi tecnologici a basse emissioni di carbonio, dimostrando che si tratta di un effetto collaterale legato ad altre preoccupazioni interne più che il risultato di un coerente programma ambientale strategico. Lo studio esamina quali fattori influenzano l’efficacia dell’autoritarismo non partecipativo cinese e infine discute le sfide future derivanti da questa analisi. Infine nello studio sono suggerite alcune implicazioni pratiche. Ad esempio l’approccio della politica cinese ai problemi ambientali viene analizzato come un esempio di autoritarismo ambientale. ovvero una centralizzazione dell’autorità in alcune agenzie esecutive con il potere di limitare le libertà individuali e senza la necessità di includere attori non statali nel processo politico.
In particolare nello studio ci si domanda:
(1) quali fattori interni stiano guidando il passaggio della Cina allo sviluppo energetico a basse emissioni di carbonio;
(2) in che modo le caratteristiche specifiche dell’autoritarismo non partecipativo cinese indeboliranno l’efficacia globale di questo sviluppo mondiale, e non ultimo
(3) quali sfide a lungo termine derivano da questa analisi.
Interessante la deduzione che i cambiamenti delle politiche ambientali cinesi non derivano dalle risposte alla sfida climatica globale mada tre sfide interne come la sicurezza energetica, la crisi sanitaria causata dalla scarsa qualità dell’aria e dell’ambiente e la legittimità legata ad un “vecchio” modello di crescita economica.
Sicurezza energetica
Il primo driver identificato nasce dal passaggio della Cina da esportatore netto di energia ad importatore netto di energia. L’abbondanza di carbone domestico non era sufficiente a soddisfare i bisogni dell’iper-crescita della produzione industriale negli anni ’90 e l’esplosione del numero di veicoli a motore ha di fatto aumentato la domanda interna di petrolio. L’aumento delle importazioni di olio nero è stata una risposta a questo scenario. La crescente dipendenza è diventata una preoccupazione per i leader politici cinesi che osservano con grande attenzione le vie energetiche marittime. Di fatto un punto debole, il governo cinese ricerca una riduzione generale della domanda di energia per diminuire la dipendenza energetica e aumentare la sua sicurezza energetica.
Crisi sanitaria e legittimità
Questo secondo driver è probabilmente quello più visibile agli osservatori stranieri. L’elevato numero di centrali a carbone, spesso con bassa efficienza e bassi standard ambientali, può essere visto come un forte motore di importanti problemi di qualità dell’aria in vasti agglomerati urbani, in particolare nell’est della Cina. Affrontare il problema della qualità dell’aria è diventato un problema serio di interesse economico e politico. I benefici economici di una migliore qualità dell’aria stanno diventando sempre più evidenti, sottolineati dallo smog e dalla costante foschia sugli agglomerati urbani che sta portando sempre più il popolo cinese ad una mobilitazione ambientale. Affrontare la crisi sanitaria e migliorare la qualità dell’aria riducendo l’uso del carbone è quindi diventata anche una questione di sostegno politico per il governo cinese.
Limiti del modello di crescita economica
Il terzo driver si riferisce alle risposte alle debolezze del vecchio modello di crescita economica fortemente orientato all’esportazione, con una struttura industriale svantaggiosa e basse capacità di innovazione e standard di efficienza. Acquisire nuove leadership tecnologiche, ad esempio nel campo delle tecnologie delle energie rinnovabili, è un modo per superare questi limiti offrendo un riconoscimento simbolico internazionale.
Questi tre fattori guida interni hanno portato all’adozione di nuove strategie di sviluppo di sistemi industriali a basse emissioni di carbonio. Dopo questa necessaria premessa lo studio si chiede se possa esistere un ruolo di leadership climatica globale della Cina.
Alle Nazioni Unite, la questione climatica offre alla Cina un campo in cui è molto più facile ottenere una reputazione positiva che in altri campi come i diritti umani e i diritti dei lavoratori. Si può osservare che la Cina stia cercando di aumentare la sua influenza globale attraverso ingenti investimenti infrastrutturali all’estero. Due banche cinesi sono divenute leader mondiali nella finanza energetica globale ma il loro portafoglio di investimenti è ancora basato sugli investimenti fossili, come le centrali a carbone. Gli investimenti della Cina nei paesi limitrofi artici mostrano che la Cina vuole garantire l’accesso a questa regione ed alle sue risorse fossili naturali. Non ultima l’iniziativa economica ”One Belt One Road” contiene importanti investimenti per garantire l’accesso ai mercati di esportazione nel lungo periodo.
Per quanto sopra i risultati cinesi in campo ambientale potrebbero essere visti come un effetto collaterale di richieste interne più pressanti. Il concetto di autoritarismo ambientale è quindi leggermente fuorviante e possa essere più probabilmente visto come il risultato di un allineamento casuale degli interessi interni. Lo studio affronta quindi le varie problematiche descrivendone le implicazioni, il ruolo della Cina come campione del clima in futuro e come interpretare gli investimenti infrastrutturali cinesi nel quadro del clima.
In primo luogo, la discussione sull’efficacia dell’autoritarismo ambientale dimostra che sia necessaria un’analisi più approfondita. Un’attenta analisi del funzionamento della governance cinese sul clima può aiutare a rivelare cosa sta funzionando, in che modo e in quali contesti. La ricerca sulla trasformazione a basse emissioni di carbonio non dovrebbe quindi includere solo un’ulteriore analisi macroeconomica ma anche più ampie dinamiche sociali, perché sono le basi su cui possono prosperare cambiamenti radicali di natura solo apparentemente tecnologica. Ciò include una valutazione più attenta del ruolo dell’impegno civile e della partecipazione pubblica, poiché la profonda decarbonizzazione nel tempo deve avvenire a livello locale e comportare cambiamenti strutturali di ampia portata, l’adozione di nuove pratiche quotidiane, modelli di mobilità, ecc..
Lo studio sottolinea che la partecipazione pubblica, sebbene a volte conflittuale e dispendiosa in termini di tempo, è più una preziosa risorsa per la trasformazione che una barriera al progresso, prendendo in considerazione le valutazioni delle recenti transizioni energetiche nei paesi democratici. La Cina potrebbe rivelarsi un innovatore dirompente (involontario) nelle transizioni a basse emissioni di carbonio oppure potrebbe continuare il suo spostamento verso uno sviluppo a basse emissioni di carbonio sempre se, e nella misura in cui, questo continui a coincidere con le sue priorità più importanti. L’autrice sembra quindi suggerire che i Paesi Occidentali dovrebbero collaborare con la Cina attraverso tutti i canali disponibili. Proprio perché è tutt’altro che scontato che la posizione favorevole dell’élite politica cinese verso lo sviluppo a basse emissioni di carbonio supererà la prova del tempo.
Infine, i tentativi di comprendere l’efficacia della Cina in uno sviluppo coerente verso basse emissioni di carbonio non dovrebbero limitarsi solo alla governance del clima ed alla trasformazione del sistema energetico. Va considerata quindi l’espansione geopolitica della Cina e la sua concorrenza nel mercato globale. Un equazione che definirei complessa.
Consapevolezza o utilitarismo?
Se uno dei principali driver della Cina nella riduzione dell’uso del carbone è la qualità dell’aria interna (e i relativi problemi di salute), ciò non escluderebbe l’utilizzo dei fossili in altre parti del mondo. In altre parole i Cinesi potrebbero spostare industrie inquinanti in altri Paesi, salvaguardando il proprio. Questo potrebbe essere forse intravisto nell’influenza globale della Cina con i suoi giganteschi progetti di investimento infrastrutturale al di fuori del territorio, nel crescente ruolo del gigante asiatico nella finanza energetica globale, nell’interesse verso le risorse nei paesi artici e, non ultima, nell’iniziativa “One Belt One Road“.
Tutte attività politico economiche che potrebbero essere più influenti di qualsiasi iniziativa per la mitigazione del clima.
Andrea Mucedola
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con numerosi Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Atlantide e della Scuola internazionale Subacquei scientifici (ISSD – AIOSS).
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