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Quanti relitti antichi nel Mediterraneo?

tempo di lettura: 5 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO: ARCHEOLOGIA MARINA
PERIODO: ULTIMI 10000 ANNI
AREA: MAR MEDITERRANEO
parole chiave: rotte marittime, relitti
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Il Mar Mediterraneo nasconde ancora molti segreti. Solcato da navi da oltre 8000 anni conserva negli abissi ancora molti artefatti di antiche Ivan Lucherini affronta il problema con questo articolo pubblicato sul numero 17 di Scuba Zone – 8.10.2014

ancora

Nel 1992 uno studio dell’Università di Oxford pose le basi per la creazione di un corpus che censisse i relitti antichi affondati nei bacini del Mediterraneo e del Mar Nero in qualsiasi modo segnalati. Quel lavoro, a firma di A.J. Parker, raggruppò le schede dei siti di interesse archeologico riferite ai relitti di epoca antica con la descrizione di giacitura, della profondità, dello stato di conservazione. Fu pubblicato in una corposa monografia dal titolo “Ancient Shipwrecks of the Mediterranean and the Roman Provinces” per la collana BAR International Series 580.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Ancient-Shipwrecks-of-the-Mediterranean-and-the-Roman-Provinces-724x1024.jpgL’edizione dello studio del Parker comprende 1.189 schede di segnalazione di relitti in un arco cronologico di circa 37 secoli dal 2.200 a.C. al 1500 d.C.. Occorre precisare tuttavia che per motivi di tutela del proprio interessantissimo patrimonio sommerso, la Grecia non ha mai divulgato le notizie afferenti all’argomento in questione. Di conseguenza la quantità di relitti censiti dal compendio del Parker soffre ovviamente la mancanza di quei relitti. Nel computo totale dei 1.189 relitti, le schede di 363 di questi non dichiarano la profondità di giacitura del relitto. Degli altri 826 si può osservare come esista una significativa sproporzione fra quelli ritrovati entro i 50 metri di fondo e quelli oltre. Il Mediterraneo e il mar Nero insieme, coprono una superficie di oltre tre milioni di chilometri quadrati. Di questi circa 300 mila, grosso modo il 10% del totale della superficie marina dei citati bacini, hanno una profondità entro i 50 metri mentre gli adiacenti 300 mila chilometri quadrati hanno profondità comprese fra i 50 e i 150 metri. Nella porzione di Mediterraneo con profondità fino ai 50 metri sono segnalati 753 relitti mentre nei restanti areali con profondità da 50 a 150 metri ne sono segnalati solo 73. Una enorme disparità percentuale.

A cosa è dovuta questa differenza di numeri su superfici omogenee?
In passato la navigazione era prevalentemente costiera soprattutto se ci riferiamo agli ultimi due millenni precedenti la nascita di Cristo. Nonostante questo, pare difficile credere che meno di cento naufragi in 37 secoli siano accaduti in una porzione di mare ampia quanto quella che ha profondità fino a 50 metri. In realtà il lavoro del Parker ci aiuta a comprendere questa disparità attraverso l’interpretazione di un grafico che riporta nelle ascisse lo scorrere del tempo a partire dal 1950 e fino al 1990 mentre sull’asse delle ordinate il numero di ritrovamenti e segnalazioni dei relitti sommersi. La curva evidenzia come lo sviluppo della subacquea ricreativa abbia fatto impennare le segnalazioni nel corso degli anni. Si passa dai 20 relitti circa segnalati nel 1950 agli 80 circa del 1960, per impennarsi ai circa 250 del 1970. ai quasi 700 del 1980 alle poco meno che 1.200 segnalazioni del 1990. E’ grazie all’invenzione del comandante Cousteau e la diffusione dell’erogatore, fra i subacquei ricreativi, che sono stati scoperti e segnalati la maggior parte dei relitti presenti nel Mediterraneo. Fino al 1990 la configurazione classica con cui si scendeva sott’acqua era con mono o bi-bombola, octopus o doppio erogatore, miscela respiratoria aria o qualche volta nitrox.  Per quanto riguardava i profili decompressivi ci si avvaleva delle tabelle, spesso derivanti dalle US Navy o dalle DCIEM; solo alla fine degli anni ’80 si diffuse l’uso dei primi computer subacquei con programmi decompressivi impostati su algoritmi haldaniani a più comparti tissutali. Dopo un primo periodo di forte crescita dei praticanti in cui non era stata nemmeno presa in considerazione, la sicurezza del subacqueo fu affidata convenzionalmente, oltre che al buddy system, al rispetto dei limiti di profondità, fissati convenzionalmente dalle didattiche in 40 metri e al rispetto della curva di sicurezza, senza quindi prevedere nella programmazione tappe decompressive oltre la classica sosta di sicurezza a tre metri per tre minuti, spostata poi a cinque metri sempre per tre minuti. Queste procedure ovviamente non permettevano immersioni prolungate oltre le profondità intorno o superiori ai 40 metri. Se si voleva superare questa barriera si doveva per forza di cose prevedere delle soste decompressive. Una procedura di programmazione che non era contemplata dalle linee didattiche delle principali organizzazioni di divulgazione della disciplina, presenti sul mercato. Ma poiché è dato noto quanto l’Uomo tenda gioiosamente all’evoluzione, questi limiti presto furono abbattuti. Alcuni appassionati iniziarono a studiare e sperimentare le tecniche di immersioni derivate dalla subacquea commerciale.

Uso di miscele sintetiche diverse dalla solita aria, uso di diversi programmi decompressivi, utilizzo di bombole di fase per miscele diverse da respirare durante la fase di risalita. Era nata la cosi detta subacquea tecnica, che era essa stessa ricreativa, ma che impiegava dei protocolli abbastanza impegnativi, sia tecnicamente che fisicamente, tali da modificare appunto la sua definizione in subacquea tecnica. I subacquei che hanno qualche lustro di esperienza ricorderanno le esposizioni dell’Eudi di Genova di alcuni anni fa quando apparvero manichini allestiti simili ad alberi di Natale con collari di erogatori, bombole da ogni parte, manometri e strumenti vari da sembrare un emporio su due gambe. Venne poi il tempo della semplificazione e della razionalizzazione delle configurazioni che rese più semplice questo tipo di esperienza. Le esplorazioni dei sistemi carsici di Wakulla Springs in Florida, generarono quella filosofia del “farlo al meglio” a cui molte didattiche si sono adeguate nel tempo, adottando e modificando il pensiero Hogartiano come sintesi di procedure condivisa.

Con l’abbattimento dei limiti di profondità della subacquea ricreativa, per l’archeologia subacquea, si sono aperti nuovi mondi da esplorare oltre i fatidici 40 metri. Negli anni si sono costituiti gruppi di esplorazione subacquea e sono di conseguenza aumentati in misura esponenziale i ritrovamenti di relitti antichi in tutti i mari del mondo. Ad ogni modo risulta difficile rispondere in termini numerici alla domanda posta dal titolo. Se applicassimo una semplice proporzione potremmo dire che oltre 600/700 relitti sono nascosti ai nostri occhi a profondità superiori ai 50 e fino ai 150 metri. Queste profondità sono ora diventate alla nostra portata ma non certo per farci una prospezione alla ricerca di siti di interesse archeologico. Quello che sicuramente solletica la curiosità degli archeologi subacquei è la consapevolezza che fra quei siti ci sono sicuramente relitti molto antichi risalenti alle epoche pre-romane e quindi levantini, greci, siciliani, etruschi, sardi e corsi. Per riuscire ad individuare quei siti ci viene in soccorso la tecnologia. Le esperienze della Aurora Trust, fondazione no-profit che ha coadiuvato nel Lazio il progetto Archeomar, contribuendo a ritrovare i resti di cinque naufragi all’isola di Ventotene e quattro a Ponza; le collaborazioni con la Soprintendenza del Mare in Sicilia, con i quattro relitti di Panarea, hanno dimostrato che una ricerca mirata può portare a risultati straordinari. La mappatura e il censimento delle evidenze archeologiche sommerse oltre che a favorire la conoscenza ed implementare gli studi specifici, offrono la possibilità di valorizzazione dei territori anche dal punto di vista turistico. Sono i subacquei che ora hanno la possibilità di occuparsi di questo.

Gruppi preparati e guidati da esperti archeologi potrebbero “adottare” un relitto aiutando i deboli budget delle Soprintendenze ad indagare i resti che giacciono sul fondo, effettuare misurazioni, fotografie, filmati e campionamenti, porre in opera telecamere a circuito chiuso che abbiano lo scopo di facilitare la tutela e la conoscenza del bene. Ora che la subacquea tecnica si propone alla platea di praticanti in termini di approccio e di apprendimento più “facili” di un tempo ci aspettiamo di vedere crescere ancora esponenzialmente il numero dei siti di interesse archeologico segnalati nei nostri mari. Con la collaborazione di tutti i soggetti interessati.

Ivan Lucherini

 

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