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Quali saranno le ricadute in Europa dopo le elezioni statunitensi?

tempo di lettura: 9 minuti

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livello elementare
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ARGOMENTO: GEOPOLITICA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: STATI UNITI
parole chiave: politica estera
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Sotto un certo aspetto, non è importante chi abbia vinto le elezioni statunitensi; l’Europa deve ora prepararsi a una graduale ulteriore riduzione della presenza americana e ad un aumento delle proprie responsabilità in materia di sicurezza europea. Un cammino di disimpegno che iniziò al Summit NATO di Praga, 2022, quando gli Stati Uniti richiamarono gli Alleati ad una maggiore consapevolezza nel campo della Difesa collettiva, facendo comprendere che il futuro dell’Europa sarebbe dovuto dipendere dall’acquisizione autonoma di una capacità difensiva. Va quindi compreso che il futuro del vecchio mondo dipenderà non tanto dal nuovo (rinnovato) presidente degli Stati Uniti ma dallo sforzo comune di rendersi indipendenti dall’assistenzialismo di convenienza (almeno nel campo di difesa e sicurezza) di cui l’Europa ha sempre goduto dal dopoguerra da parte degli Stati Uniti. Una situazione di comodo che viene sfruttata da Atlantisti e non a proprio vantaggio

Una situazione di fatto è che l’Unione Europea è ben diversa da quelle speranze che avevano sognato i suoi fondatori, mostrando ancora un’evidente incapacità di scelte autonome causata dalle divisioni interne. Questo divario concettuale si esprime in tutti i campi compreso il posizionamento ideologico nella competizione USA-Cina e sulla gestione di una guerra aggressiva ai suoi confini. La posizione di rendita dell’Europa sullo scacchiere di sicurezza, commerciale e tecnologico internazionale – fino ad ora al traino degli Stati Uniti – è arrivata al suo capolinea ed occorre quindi raggiungere un’autonomia imprescindibile per definire i rapporti futuri con il resto del mondo.

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immagini di venti anni di guerra in Afghanistan, un impegno gravoso che ha lasciato un segno nell’Alleanza. Di fatto un insieme di lezioni acquisite con una fine deludente – US different sources Collage of the War in Afghanistan (2001-2021).png – Wikimedia Commons

Il processo di disimpegno americano sul territorio europeo è in corso da tempo e bisogna solo vedere chi e come, da una parte dall’altra, vorrà accelerarlo od addirittura esigerlo, ponendo condizioni. Come gli analisti della politica NATO di questi ultimi decenni ben sanno, è finito il tempo in cui l’amministrazione americana spendeva enormi risorse finanziarie e politiche per salvare l’Europa da sé stessa. Gli interessi di oltre oceano sono cambiati e richiedono agli Stati Uniti un maggior impegno nel Pacifico, dove nuove superpotenze si stanno affacciando bellicosamente, minacciando gli equilibri economici occidentali. Di fatto l’Europa, in questi ultimi anni, ha sprecato tempo per maturare una politica comune in tutti i campi, soffocata dagli egoismi nazionali ed ora non è pronta ad affrontare le sfide del III millennio. Coloro che accusano la politica americana di imperialismo sugli alleati europei e della NATO, dovrebbero domandarsi se siamo mai stati in grado di proporre alternative valide, lasciando il campo libero alla realpolitik, talvolta a nostro discapito. Dall’altra parte dell’Oceano gli Stati Uniti hanno dilapidato l’enorme capitale dell’egemonia che avevano raggiunto con la fine della Guerra Fredda a causa della loro incapacità ad affermarsi e rinnovarsi.  L’Europa ha fatto peggio anche dal solo punto di vista economico: di fatto sta affrontando una grave crisi di identità e di competitività rispetto al resto del mondo, non solo nei confronti della Cina (Paese concorrente che spesso non riusciamo nemmeno ad identificare come tale) ma neppure nei confronti dell’unico partner che potremmo al momento avere, gli Stati Uniti; quindici anni fa il PIL europeo era pressoché uguale a quello degli USA, oggi fatica ad arrivare ai 2/3 di quello americano. La moneta unica era una forza e, forse, una speranza ad un’alternativa globale, mentre oggi l’Euro non riesce ad essere competitivo ed alternativo (sul primo punto il rapporto Draghi, se letto bene, né è lo specchio). Per il vecchio continente gli ultimi due candidati sono tutt’altro che equivalenti, mettendo l’EU di fronte ad alternative che non è pronta ad affrontare ed a decisioni che sarebbero traumatiche in politica interna.

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… è interessante notare l’andamento del PIL statunitense, dell’Unione europea e dell’area Euro dal 2000 – Fonte The Economist

Le relazioni transatlantiche, dopo le tensioni del primo mandato Trump allora confrontato con un interlocutore tedesco, fanno prevedere un maggiore bilateralismo nei rapporti con i singoli paesi europei, certamente con possibili ripercussioni anche sulle relazioni con Mosca. Un’evoluzione di questo tipo potrebbe mettere a dura prova il “potere contrattuale” della UE e la sua capacità di contare sulla scena internazionale. In tale quadro l’approccio trumpiano per ridurre, o meglio ri-equilibrare, l’impegno americano, con l’alternativa già fatta balenare di una “NATO dormiente”, potrebbe finalmente spingere gli europei ad assumersi maggiori responsabilità e accelerare gli sforzi per sviluppare finalmente una capacità di difesa autonoma, strumento essenziale di una politica unica europea.

È uno scenario probabile?

Certamente nulla di immediato e con prevedibili “tempi lunghi”. Da parte UE non c’è ancora una visione unitaria di politica estera, presupposto di una difesa comune, e non esiste ancora una base industriale della difesa europea sufficientemente integrata. Inoltre, senza un debito comune e investimenti in deficit, notoriamente tabù per la Germania anche in tempi di crisi come oggi, non potremo essere in grado di onorare la transizione energetica, figurarsi una difesa comune. Trump, d’altra parte, ha ipotizzato di intensificare le politiche protezionistiche e, in caso di tensioni o di alleanze non equilibrate in ogni settore, potrebbe arrivare a imporre tariffe anche sulle importazioni dall’Europa; praticamente una messa in mora per la UE, portata a scegliere tra necessità di buoni rapporti con gli USA o con la Cina.

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Quello trumpiano potrebbe non essere lo scenario peggiore, malgrado le apparenze politically uncorrect che lo contraddistinguono. In prima analisi, se avesse vinto Kamala Harris (KH), espressione di fazioni e di interessi mutevoli tra loro spesso in contrapposizione, il riorientamento della politica estera americana avrebbe potuto apparire forse più graduale e meno drastico. Di fatto KH è comunque espressione di una generazione americana post guerra fredda e soprattutto post-atlantica, con un focus crescente sull’Asia piuttosto che sull’Europa, come d’altronde fortemente voluto da Obama, da cui KH non si può in nessun modo smarcare. Qualcosa si era già visto con l’amministrazione Biden, malgrado l’impegno per l’Ucraina, non corroborato però, sin dai tempi di Obama, da politiche della Difesa adeguate (basti pensare il dramma della US NAVY a cui il nuovo Presidente dovrà porre rimedio se vorrà mantenere il controllo dei mari). Una ragione di più per l’Europa di doversi preparare a sostituire una graduale riduzione della presenza americana in Europa, rendendosi disposta a un reale aumento delle proprie responsabilità in materia di sicurezza. Ce lo insegnavano i Latini, Si vis pacem, para bellum, «se vuoi la pace, prepara la guerra», un’espressione che sconvolge i ben pensanti per la sua crudezza ma che in duemila anni si è purtroppo sempre confermata. Siamo di fronte ad una sfida globale che si gioca e si giocherà sempre più sul mare, e non si potrà più navigare in termini di opportunismo politico ed economico ma dovremo rapidamente costruire un pilastro di Difesa europeo per poter sopravvivere e non essere schiacciati nelle competizioni future.

Un altro punto che vorrei sottolineare è che questa ultima sfida elettorale è stato un punto di frattura politica che ha mostrato il divario concettuale nel CONUS tra politiche di apertura aut chiusura, riguardo alla globalizzazione, commercio, contrasto alle migrazioni e sviluppo delle tecnologie digitali; una divisione che ha sostituito i temi tradizionali tra la destra e la sinistra statunitense. Un fattore di cui devono tener conto tutti i paesi europei, in particolare quelli marittimi. Gli economisti ci insegnano che società chiuse non possono sostenere uno sviluppo economico duraturo, tanto meno l’Europa che vive di import ed export e deve gestire efficacemente le relazioni commerciali con il Dragone e l’approvvigionamento di materie prime dall’Africa, con una presenza significativa navale oltre il Mediterraneo allargato; potremmo dire che senza pericolo di essere smentiti che la protezione commerciali marittime delle rotte nell’Indopacifico potrebbero essere condizionate dalla Belt&Road Initiative (BRI, la via della seta), con tutte le sue incognite nel Mediterraneo orientale e nel Mar Rosso fino al collo di bottiglia di Hormuz, inclusi programmi come il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC), che potrebbero essere affetti da nuovi conflitti locali.

Nel quadro di opportuni accordi, la cooperazione europea con gli Stati Uniti può essere quindi ancora di reciproco interesse in particolare per la sicurezza energetica che sarà condizionata dal futuro ordine globale (ancora tutto da definire).

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La Belt and Road initiative è la via della sopravvivenza del Dragone, che riunisce le aree strategiche fondamentali per la sua economia ma saranno anche le cerniere di crisi del III millennio se non si arriverà ad un equilibrio comune. La Cina in rosso, i membri dell’Asian Infrastructure Investment Bank in arancione, i corridoi terrestri in nero (Land Silk Road) e quelli marittimi in blu (Maritime Silk Road).– autore Lommes
One-belt-one-road.svg – Wikimedia Commons

Un fattore da non trascurare, emerso nelle ultime settimane, è che la così popolare battaglia sul clima non sembra essere poi cosi radicale per gli americani che, a fronte degli impegni precedenti, dovranno far fronte all’incidenza dei trasporti globali per supportare la loro economia interna. Certamente un passo indietrodal punto di vista ambientale ma che rispecchia la posizione di protezionismo degli interessi nazionali espressa anche dal leader indiano Modi e dai Cinesi. Di fatto i principali attori mondiali sono tornati a mettere al centro i problemi dell’efficienza e dei costi al fine di dare un miglior bnessere ai propri cittadini, a discapito dell’effettuazione di politiche di sostenibilità ambientale talvolta discutibili e poco efficaci. In poche parole c’è poca scienza e mollta politica reale intesa a salvaguardare uno status quo che sta però cambiando.

Possiamo aspettarci che gli Stati Uniti (già i maggiori produttori di petrolio al mondo), possano aumentare entro un anno la produzione da poco più di 10 milioni di Barili EPT al giorno a 13 milioni; per essere pragmatici, un aumento che tutto sommato non sarebbe percentualmente ulteriormente negativo per il clima, ma potrebbe abbattere il prezzo del greggio al punto da privare di finanziamento la macchina da guerra di Putin in Ucraina ed allontanare qualsiasi ricatto mediorientale, e di stati canaglia, nei confronti dell’Occidente. Sarebbe forse un modo trasversale per imporre a Mosca una trattativa per l’Ucraina che Trump potrebbe intavolare, cercando una win win solution che sicuramente non accontenterà tutti. Toccherà poi all’Europa fare la sua parte, nella transizione di sostenibilità ecologica e nel suo contributo al nuovo (quando sarà definito) ordine mondiale … nel caso anche con una partecipazione militare autonoma dove necessario, ma per questo dovremo essere pronti. In sintesi, il quadro geopolitico sta cambiando velocemente e la mappa non è più quella terrestre del 2018, ma una carta nautica del 2024, con rotte ed esigenze ben diverse.

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Cosa aspettarci?
Nell’ambito del confronto tra le grandi potenze, tra Usa e Cina con qualche comprimario, è possibile che continuino a sorgere nuovi conflitti locali, applicando una strategia di usura nei confronti dell’Occidente, e la contesa sarà soprattutto marittima con l’asse sull’Indopacifico; un confronto che non si baserà sul potere navale in senso stretto del termine ma sulla capacità di esercitare e gestire i traffici commerciali, proteggendoli da fazioni canaglie (proxy), operanti al servizio di Paesi che non si vogliono sporcare direttamente le mani. Per questo motivo, gli Stati Uniti dovranno riacquistare la supremazia navale (e soprattutto mantenerla con il supporto attivo degli Alleati) al fine di ricostituire la capacità di controllo  del traffico marittimo, fatta non solo di navi e sottomarini ma di porti, logistica e gestione delle catene di valore. Il potere marittimo deriva dalla ricchezza e la ricchezza è storicamente legata al libero scambio, protetto e incoraggiato da una forte Marina … ce lo ha insegnato Mahan 1. 

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una task force italiana in operazioni di alto mare – Fonte UPICOM

In sintesi, è probabile che le relazioni transatlantiche sotto Trump si possano evolvere verso un maggiore bilateralismo nei rapporti con gli Alleati (rendendo più difficile alla NATO l’esecuzione dei propri compiti). Una politica a diverse velocità con i singoli paesi europei a discapito anche di un’Unione Europa che dovrà comunque crescere e tenere il timone al centro per ricercare al più presto un suo ruolo. Non ultimo, sebbene non tutti gli alleati abbiano un ugual peso sul mare per ovvie capacità belliche, una cosa è certa: ognuno dovrà fare la sua parte, considerando che il prossimo “terreno” di scontro sarà ancora negli oceani per difendere i nostri interessi in un mondo che sta inesorabilmente cambiando.
Giancarlo Poddighe
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in anteprima la portaerei statunitense USS America @ photo credit Guido Alberto Rossi da https://www.guidoalbertorossi.com/

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Riferimento

1. Nell’ Influenza del potere marittimo sulla storia, Mahan illustrò la teoria del sea power. Secondo Mahan «La caratteristica principale che si delinea dall’analisi storica del potere marittimo è l’antagonismo tra gli stati o le nazioni per ottenere il dominio, o il controllo del mare». Il potere marittimo obbliga uno dei due contendenti a impedire l’uso del mare all’altro (Sea Denial). La visione va oltre l’uso delle navi militari ma coinvolge la logistica avanzata con l’uso di porti o basi navali di altri Paesi nell’area di operazioni, includendo collaborazioni con gli Alleati per un comune interesse.

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