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livello medio.
ARGOMENTO: SVILUPPI DELLA SCIENZA
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: DIDATTICA
parole chiave: genetica, epidemie, DNA, genoma
Una delle polemiche più accese che ha diviso il Paese durante la pandemia è stata la necessità di vaccinarsi. Alcuni detrattori sottolineavano il rischio di effettuare vaccini che, secondo loro, non avevano ancora terminato la fase di sperimentazione, altri ritenevano che la pericolosità del contagio fosse da rivalutare in quanto, per “molti”, veniva risolta come una normale influenza, senza dare quindi gravi conseguenze.
Queste notizie mediatiche, non sempre basate su studi della scienza ufficiale, sono tutt’oggi considerate da chi studia l’efficacia di lungo termine dei vaccini. Per quanto tempo i vaccini mantengono la loro capacità di protezione verso le forme più gravi? Qual è l’effetto contro le varianti? L’argomento è complesso e molti passi avanti sono statti fatti anche se non sempre divulgati. Si parla ad esempio di memoria acquisita, una protezione che, dopo le vaccinazioni o a seguito del contagio, in parte ci proteggerebbe, da evoluzioni più perniciose legate alle nuove varianti.
Un interessante articolo, che in realtà ha una validità più generale rispetto alla pandemia citata, è apparso su The Conversation, una delle riviste scientifiche più importanti a livello mondiale.
L’articolo, scritto da Aidan Burn, un dottorando in Genetica alla Tufts University, USA, affronta un tema molto interessante ovvero come tracce di un antico DNA virale nel nostro genoma possano influenzare lo sviluppo delle malattie nel nostro organismo. In parole semplici, esiste una memoria storica che ci possa proteggere in caso di epidemie o favorire lo sviluppo di altre patologie? Secondo l’autore, che fa parte di un gruppo di ricercatori impegnati in questa ricerca applicata, i retrovirus endogeni umani costituiscono l’8% del nostro genoma. I resti di antiche pandemie virali, sotto forma di sequenze di DNA virale, sono ancora incorporati nel nostro genoma e risalgono ad infezioni che gli antenati dei primati dell’Umanità subirono milioni di anni fa.
Cosa accade
Il meccanismo è legato al comportamento di replicazione dei virus. Come nel caso dell’HIV, questi antichi retrovirus hanno dovuto inserire il loro materiale genetico nel genoma del loro ospite per replicarsi. Sebbene non sempre avvenga, alcuni virus acquisirono la capacità di infettare le cellule germinali (come l’uovo o lo sperma), che trasmettono il loro DNA alle generazioni future. Prendendo di mira le cellule germinali, questi retrovirus si incorporarono nei genomi ancestrali umani nel corso di milioni di anni. Le possibili implicazioni della loro presenza è una difesa immunitaria ancestrale che, in alcuni individui può esse tale da non farli ammalare. Ricerche in questo campo potrebbero aumentare la nostra capacità di difenderci in caso di nuove malattie, sfruttando il nostro patrimonio genetico.
Cerchiamo di capire meglio
I virus sono entità biologiche (non sono quindi animali o vegetali) che vivono obbligatoriamente un rapporto con altri organismi viventi traendone non necessariamente un reciproco vantaggio della vita in comune. Per potersi replicare necessitano quindi di inserirsi all’interno delle cellule degli organismi. In partica infettano le forme di vita. Questo comporta che tutti gli individui di ogni specie animale, compreso l’Uomo, ospitano normalmente un elevato numero di virus, che formano una popolazione detta viroma. Per nostra fortuna, non sempre sono nefasti e possono convivere in maniera silente senza darci problemi; in altri casi nascono i problemi che possono portare alla morte dell’organismo ospitante. Il problema è che non possono essere sempre contrastati se non aumentando le difese immunitarie (ad esempio con i vaccini) o con sostanze antivirali. Il meccanismo è alquanto subdolo. Quando penetrano negli organismi inseriscono i loro genomi (insieme di DNA nucleare, mitocondri e cloroplasti) nei loro ospiti sotto forma di provirus (uno stadio per cui una molecola di DNA a doppio filamento, sintetizzata direttamente dall’RNA virale, si integra nel DNA cromosomico della cellula ospite, duplicandosi con questo e venendo così trasmessa alle cellule figlie).
Un retrovirus è un virus che utilizza l’RNA come materiale genomico. Dopo l’infezione da un retrovirus, una cellula converte l’RNA retrovirale in DNA, che a sua volta viene inserito nel DNA della cellula ospite. La cellula produce quindi più retrovirus, che infettano altre cellule. Molti retrovirus sono associati a malattie, tra cui l’AIDS e alcune forme di cancro.
Secondo i ricercatori dello studio sono stati identificati circa trenta diversi tipi di retrovirus endogeni umani nelle persone, per un totale di oltre 60.000 provirus nel genoma umano. Questo dimostrerebbe che il nostro organismo conserva la lunga storia delle numerose pandemie a cui l’umanità è stata sottoposta nel corso dell’evoluzione. La ricerca ha dimostrato che i geni HERV (human endogenous retroviruses) sono attivi nei tessuti malati, come i tumori, nonché durante lo sviluppo embrionale umano. Non è però noto quanto lo siano nei tessuti sani. Per rispondere a questa domanda i ricercatori si stanno con concentrando hanno deciso su un gruppo di HERV noto come HML-2. Questo gruppo è dal punto di vista temporale l’ultimo degli HERV, essendosi estinto meno di 5 milioni di anni fa. Alcuni dei suoi provirus all’interno del genoma umano hanno conservato la capacità di produrre proteine virali. Esaminando il materiale genetico di oltre 14.000 campioni di tessuto sono state ricercate sequenze che corrispondessero a ciascun provirus HML-2 nel genoma ritrovando alla fine 37 diversi provirus HML-2 ancora attivi che potevano ancora produrre proteine virali.
Quali sono le ricadute di questa scoperta?
Il fatto che migliaia di frammenti di virus antichi esistano ancora nel genoma umano e possano persino creare proteine è un fattore importantissimo in quanto i virus correlati ancora attivi oggi potrebbero causare il cancro al seno e malattie simili all’AIDS. Questo sembra confermato negli animali da laboratorio e si stanno studiando analogie negli umani. Per ora i ricercatori hanno individuato particelle simili a virus dell’HML-2 nelle cellule tumorali e la presenza di materiale genetico HERV nel tessuto malato è stata associata a condizioni come la malattia di Lou Gehrig o la sclerosi laterale amiotrofica, la sclerosi multipla e persino la schizofrenia. La presenza di HERV RNA in tessuti sani potrebbe però non essere sufficiente per collegare il virus a una malattia ed i geni o le proteine HERV potrebbero non essere buoni bersagli per i farmaci. Gli HERV sono stati esplorati come bersaglio per una serie di potenziali farmaci, inclusi farmaci antiretrovirali, anticorpi per il cancro al seno e terapie a cellule T per il melanoma. I trattamenti che utilizzano i geni HERV come biomarcatori del cancro dovranno però anche tenere conto della loro attività nei tessuti sani.
Il gene che codifica per la sincitina è un elemento retrovirale endogeno che è il residuo di un’antica infezione retrovirale integrata nella linea germinale dei primati. Nel caso della syncytin-1 (che si trova negli umani, nelle scimmie e nel Vecchio mondo ma non nelle scimmie del Nuovo Mondo), questa integrazione è probabilmente avvenuta più di 25 milioni di anni fa.
Il più famoso HERV incorporato nei genomi umani e animali, la sincitina, è una proteina il cui gene è derivato da un antico retrovirus che svolge un ruolo importante nella formazione della placenta. La gravidanza in tutti i mammiferi dipende da questa proteina derivata dal virus. Inoltre, l’elevato sviluppo muscolare tipico dei maschi è dovuto alla sua azione che è entrata a far parte del genoma dei mammiferi circa 25 milioni di anni fa. Una cosa curiosa è che questa azione si esplica nei maschi e non nelle femmine.
Alcuni animali, come gatti, pecore e topi, hanno trovato un modo per utilizzare i retrovirus endogeni per proteggersi dall’antico virus originale che li aveva creati. Sebbene questi geni virali incorporati non siano in grado di utilizzare il loro ospite per creare un virus completo, una traccia di loro circola ancora nel corpo per interferire con il ciclo di replicazione del virus ancestrale (qualora l’ospite lo dovesse nuovamente incontrare). In parole semplici gli HERV ci potrebbero proteggere da nuove infezioni grazie ad un’eredità genetica maturata in milioni di anni.
Questa immagine del National Human Genome Research Institute mostra l’output di un sequenziatore di DNA. Il 31 marzo 2022, gli scienziati hanno annunciato di aver finalmente assemblato il progetto genetico completo per la vita umana. (NHGRI via AP)
Ovviamente c’è ancora molto da imparare sui resti di questi antichi virus presenti nel nostro genoma, per comprendere quanto la loro presenza sia effettivamente benefica o debba, in alcuni casi, essere corretta. Rispondere a queste domande potrebbe aiutare i ricercatori a capire come il sistema immunitario del nostro corpo umano si sia evoluto, proteggendoci nel tempo.
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