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Long Covid: le pandemie disabilitano le persone, una lezione di storia che i politici ignorano

tempo di lettura: 7 minuti

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livello elementare

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ARGOMENTO:   EMERGENZE SANITARIE
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: SANITA’
parole chiave: Long Covid, Covid 19, precauzioni, andamento statistico

 

In questo caldo inizio di estate, tutti si lamentano delle temperature e dell’aumento dei costi e, dopo due anni di pandemia, il ricordo di quei giorni bui è passato. Ma ne siamo proprio sicuri?

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si può ma .. attenzione al Long Covid … NEL DUBBIO RIVOLGIAMOCI A SPECIALISTI DI MEDICINA SUBACQUEA

La gestione del ministero della sanità mi ha sempre lasciato molto perplesso sin dall’inizio dell’epidemia; scavando erano emerse inefficienze, burocrazie ottocentesche che avevano causato incertezza nella gestione dell’emergenza costringendo le maestranze a lavorare in affanno e difficoltà. Poi intervennero i militari, che unirono le loro forze ad una ormai stremata sanità, portando un valore aggiunto non trascurabile: il metodo. La cosa funzionò ma fu fumo negli occhi per una classe antimilitarista, avvezza a ricordarsi di loro solo nei momenti di bisogno. Il generale Figliolo ed il suo staff riuscirono a traghettare con pragmatismo i centri di immunizzazione ad una necessaria efficienza con il concorso del personale sanitario di tutte le Forze Armate.

È tutto finito? Così ci vogliono far credere. Come si diceva una volta, se hai un problema fanne nascere un altro, per distogliere l’opinione pubblica. Chiodo scaccia chiodo e guardandosi intorno i problemi purtroppo non mancano mai.

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personale dell’Esercito italiano in supporto durante i mesi del lockdown – foto ministero della Difesa 

Come ho scritto altre volte, io non sono un sanitario e non mi permetterei mai di entrare nel merito a valutazioni specialistiche, tantomeno nel campo medico dove scelte errate possono causare perdite di vite umane. Mi occupo di analisi dei problemi e di ottimizzazione delle soluzioni per cui le mie critiche possono essere dirette solo al metodo di lavoro.

Per quanto riguarda la gestione dell’emergenza COVID 19 se ne dovrebbero occupare gli specialisti del ministero (e non mi riferisco a immunologi e sanitari vari) ma ai loro analisti che, valutando i dati scientifici raccolti, dovrebbero essere in grado di suggerire soluzioni adeguate, giustamente impattanti sul tessuto sociale e sufficientemente efficaci per contrastare l’epidemia.

 EFFICACIA  SOSTENIBILITA’  ADEGUATEZZA

Si parla di valutazione del rischio, un dato numerico che dovrebbe aiutarci nelle scelte. Purtroppo non è così semplice perché i soggetti della valutazione non sono elementi semplici ma molto complessi, sono esseri umani. L’unico modo di avvicinarsi a valori largamente condivisibili è aumentare il campione, cosa non semplice in quanto nel nostro Paese esistono sistemi di raccolta dati apparentemente diversi e non facilmente confrontabili. Parlando con un dirigente medico di un certo livello è emerso un fattore che mi ha incuriosito. Sembrerebbe che diverse politiche di offerta regionale di “testing” e l’uso di test alternativi al test molecolare nelle Regioni/PP.AA. non rendano di fatto pienamente comparabili le statistiche che leggiamo sul web.

Dopo due anni è cambiato qualcosa?
In questo periodo, purtroppo, l’attenzione pubblica è dirottata verso altri tipi di emergenze, nazionali ed internazionali. Questo garantisce di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, alleggerendo il peso sulla pandemia (quasi fosse un ricordo passato), ed accontentare quella massa di italiani che non ne hanno mai compreso pienamente l’impatto sociale, sentendosi obbligati a prendere decisioni poco piacevoli come il doversi vaccinare senza aver ancora compreso la sua importanza. La disinformazione, come sempre, ha fatto poi il suo gioco in un senso  o nell’altro. Tranquilli, non voglio tornare al discorso vaccinazioni, che mi pare di aver affrontato con sufficiente chiarezza nei miei articoli precedenti. Continuo a pensare che sia il minore dei mali a fronte alla possibilità di subire le conseguenze di un contagio pernicioso che potrebbe avere conseguenze lunghe e dolorose, in particolare per coloro che hanno una vita sportiva o problemi di salute.

Dall’ultima analisi settimanale del ministero della Sanità del mese di giugno, il numero di casi riportati alla protezione civile negli ultimi 14 giorni è in aumento ovunque (tranne che in Calabria) con valori di trend che vanno da 10 al 50%. Lo stesso andamento si riscontra nel trend dei numeri nel Sistema di Sorveglianza integrata COVID-19 dell’Istituto  Superiore della Sanità (ISS).

Praticamente lungo la penisola il numero dei casi sta aumentando, ma non se ne parla. Considerando che purtroppo il COVID 19 può essere ripreso anche da persone che lo hanno già avuto, che le nuove varianti Omicron sono estremamente contagiose e, non ultimo, il fatto che la protezione dei vaccini (anche per coloro che hanno effettuato la terza vaccinazione) scende naturalmente nel tempo, ci aspetteremmo un richiamo a mantenere determinate regole di precauzione non alla loro sospensione. A questo punto ci dobbiamo domandare se effettivamente erano necessarie o se si tratta di un irragionevole provvedimento per garantire il quieto vivere estivo. Non fa piacere parlare di queste cose, tutti vorremmo avere una vita meno “costretta” ma l’alternativa è sempre la stessa: accettare il rischio di contrarre la malattia che potrebbe causarci problemi anche di lunga durata oppure cercare di mitigarlo attraverso un idoneo distanziamento e l’uso di mascherine, questo sempre in attesa del famoso vaccino annunciato da Speranza, di cui tra l’altro non sappiamo più nulla? 

Long Covid, non se ne parla abbastanza
Oltre al rischio sanitario causato dal Covid 19 alle categorie più deboli, esiste quello legato alla prosecuzione per lungo tempo dei sintomi del COVID. Questo argomento è oggetto di un recente studio apparso su Nature sul cosiddetto Long COVID, ovvero quella condizione subdola in cui le persone continuano a manifestare sintomi, anche invalidanti, per mesi dopo essere stati colpiti da un’infezione acuta di SARS-CoV-2 . Dall’articolo emerge che i ricercatori hanno scoperto che un corretto protocollo vaccinale purtroppo può ridurre il rischio di sviluppare il Long COVID solo del 15%, un valore sostanzialmente inferiore rispetto ad altre stime precedenti che erano decisamente più ottimistiche. La differenza percentuale (da oltre il 50% iniziale al 15%) è stata analizzata ed è emerso un dato sconcertante: esiste, a livello globale, una definizione diversa di Long Covid per cui i tipi di dati utilizzati per studiarlo analizzarlo non sono correlabili. Questo influisce ovviamente sulle metodologie di cura discendenti che si riducono nella maggior parte dei casi al trattamento dei sintomi.

Questo ha comportato confusione sia per il pubblico che i responsabili politici alle prese con risposte dal mondo scientifico così disparate. Ci si domanda in particolare quanto sia frequente il Long COVID e quanto influisca la vaccinazione o la reinfezione (magari con l’ultima variante SARS-CoV-2) sul rischio di svilupparlo? Per quanto possa sembrare assurdo, parte del problema è proprio dare una definizione univoca per questa malattia di lunga durata la cui gravità può variare da semplici fastidi a condizioni debilitanti per mesi o forse anche anni.

Le manifestazioni cliniche (sintomi) più comuni associate al Long COVID sono diverse (ne sono stati segnalate circa 200). Le più diffuse sembrano essere:
stanchezza cronica (astenia)
affanno
problemi di memoria e concentrazione
depressione e ansia
annebbiamento mentale
perdita dell’olfatto (anosmia) o del gusto (ageusia)
dolore o senso di oppressione al petto
difficoltà a dormire (insonnia)
palpitazioni, dopo il minimo sforzo
vertigini
formicolii
dolori articolari
debolezza muscolare
fischi o ronzii o male all’orecchio
diarrea
dolori di stomaco
perdita di appetito
febbre
tosse
mal di testa
mal di gola
eruzioni sulla pelle (cutanee)

Per assurdo, nemmeno l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), a cui fu proposto il termine Long Covid, è stato in grado arrivare ad una definizione universalmente condivisibile.

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Secondo l’articolo citato, l’epidemiologo clinico Ziyad Al-Aly, avendo l’accesso a milioni di cartelle cliniche elettroniche del Dipartimento per gli affari dei veterani (VA) degli Stati Uniti, un Ente che fornisce assistenza sanitaria ai veterani militari, ha avuto il modo di valutare le cartelle sanitarie di oltre 13 milioni di persone. Sebbene il 90% di queste persone fossero uomini (solo 1,3 milioni donne) per la prima volta è stato possibile attingere ad una quantità di dati sanitari vastissima, preziosi per effettuare una analisi così complessa. 

Gli stessi ricercatori hanno però compreso che, da un punto di vista statistico, riguardavano una comunità omogenea abituata a comportamenti sociali similari.  Essendo ex militari, addestrati a “soffrire”, si è notato che  a volte preferivano tenersi i fastidi senza volerli rendere pubblici, nascondendo quindi aspetti che sarebbero potuti essere importanti in una visione eterogenea. Un altro problema emerso è stato che le informazioni contenute nelle cartelle cliniche elettroniche erano molto soggettive ovvero legate alle metodologie dei vari medici compilatori. Un problema non trascurabile in quanto la registrazione dei dati sembra essere ancora molto soggettiva a livello internazionale e non esiste un codice identificativo unico per i sintomi, cosa che rende poi complesso fare raffronti e valutazioni.

Secondo l’Office for National Statistics (ONS) del Regno Unito, nello sviluppo del Long COVID, in un periodo compreso tra quattro a otto settimane dopo l’infezione, la variante Omicron BA.1 di SARS-CoV-2 potrebbe influire circa il 50% in meno rispetto alla famigerata Delta. Bisognerebbe capire se questo dipende dagli effetti della vaccinazione o sono una peculiarità della variante Omicron.

Anche se è difficile quantificare con precisione l’effetto della campagna vaccinale sul rischio di Long COVID, un’analisi su dati più correlabili potrebbe far comprendere le tendenze in atto (a seguito delle varianti) e quindi predisporre misure e terapie più adeguate. Di fatto, secondo Al-Aly, “il filo conduttore è che i vaccini sono (ancora) meglio di nessun vaccino“.

Per quanto possa sembrare banale, il modo migliore per prevenire il Long COVID per tutti è evitare di contrarre l’infezione da virus SARS-CoV-2 indossando la mascherina correttamente, mantenendo il distanziamento di almeno un metro dalle altre persone, lavandosi spesso le mani con acqua e sapone o con prodotti a base di alcol per almeno 40 secondi, evitando i luoghi affollati e scarsamente ventilati. Tutte azioni che richiedono una certa disciplina comportamentale, poco gradita a tutti e, in particolare, a più giovani. Il rischio è che, con la diminuzione delle restrizioni concesse dal Governo, l’aumento dei casi già in corso, porti ad un aumento dei casi di Long Covid. Siate prudenti, godetevi l’estate ma sempre in sicurezza.

 

in anteprima Coronavirus COVID-19: ragazza con la maschera di protezione – ferma la pandemia  https://www.vperemen.com – / CC BY-SA 4.0
Stop Coronavirus COVID-19.jpg – Wikimedia Commons

 

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