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livello elementare
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ARGOMENTO: ARCHEOLOGIA DELLE ACQUE
PERIODO: II-III SECOLO
AREA: OCEANO ATLANTICO
parole chiave: relitto, nave oneraria romana
Siamo abituati a leggere storie di ritrovamenti di navi romane affondate in situazioni drammatiche nel Mare Nostrum, teatro sin dall’antichità di battaglie e eventi naturali. I relitti testimoniano come il Mediterraneo sia sempre stato una terra di confine e scambio tra i popoli in cui Roma per oltre cinque secoli affermò la sua potenza marittima. A volte dimentichiamo che Roma si spinse ben oltre le colonne d’Ercole, operando negli oceani una attività commerciale marittima anche con Paesi molti lontani. Oggi parleremo di un relitto forse meno famoso ma che conferma l’alacre attività di navigazione perseguita nel mondo romano: il relitto romano di Guernsey.
La vita nelle isole della Manica era preesistente all’arrivo dei Romani. Come molte isole tra la Bretagna e l’Inghilterra, Guernsey divenne poi un ottima base di appoggio per le navi. Si presume che sull’isola di Guernsey, nell’attuale villaggio di St Peter Port, esisteva un piccolo villaggio nel quale gli archeologi hanno trovato resti di edifici in pietra.
Si pensa che vi fossero anche dei magazzini usati come parte di una piccola stazione commerciale. Tra i reperti ritrovati a terra anche un’offerta votiva e delle urne di sepoltura che suggeriscono che gli abitanti di Guernsey avevano praticamente adottato la religione e le pratiche culturali romane. Nella campagna circostante è stata ritrovata una villa con dei mattoni romani. La scoperta di un nave mercantile gallo romana non stupisce e conferma l’attività mercantile nel II e III secolo in quell’area geografica. Oggi raccontiamo la storia del rilevamento fortuito di questo relitto, considerato uno dei più grandi mercantili romani ritrovati in oceano.
Il ritrovamento
Immergersi nelle acque del porto di St Peter harbour di Guernsey è normalmente vietato a causa dell’alto volume di traffico; vietato ad eccezione di un giorno all’anno, quando l’accesso è tradizionalmente consentito, il giorno di Natale. In questa data i subacquei locali si tuffano per raccogliere sott’acqua una prelibatezza locale, le capesante. Quel giorno, 25 dicembre 1982, anche Richard Keen si recò al porto pregustando già il ricco bottino che avrebbe arricchito il pranzo di Natale. Durante l’immersione notò delle grosse travi di un relitto che sporgevano dal sedimento fangoso. Le travi erano situate proprio al centro della stretta entrata del porticciolo ed erano state chiaramente portate alla luce dall’azione dell’elica delle navi che quotidianamente passavano sopra la loro testa.
Il relitto sembrava molto robusto, con il fondo piatto e una lunghezza di circa 20 metri. Una scoperta che sicuramnete suscitò molto interesse nella piccola comunità locale e, l’anno seguente, un team di archeologi ritornò sul sito scoprendo dei frammenti di piastrelle romane. Questi primi resti con dei resti di vasellame aiutarono a collocare storicamente l’età del naufragio in epoca imperiale, intorno al II – III secolo dopo Cristo.
La necessità di preservare le grosse travi esposte, portò ad effettuare un primo scavo, reso urgente anche dalla volontà dell’Autorità portuali locali di effettuare il dragaggio dell’ingresso del porto, per consentire il passaggio ai traghetti più grandi. Essenzialmente si trattò di un intervento conservativo sotto la direzione della Dottoressa Margaret Rule e con l’aiuto di subacquei locali, tra cui anche l’occasionale scopritore. Lo scavo archeologico avvenne in due campagne principali, nel novembre 1984 e nel marzo 1985. Una breve campagna del terzo anno ebbe luogo anche nel settembre del 1986 con ulteriori immersioni effettuate attorno al sito da Richard Keen (occasionalmente con altri subacquei) fino al 1988.
Inutile dire che queste attività furono disturbate dal traffico mercantile sia nel traffico in entrata e uscita sia per gli effetti dopo il transito (aumento della torbidità). Durante l’inverno del 1984/85 si tentò di proteggere il sito depositandovi sopra decine di sacchi di sabbia, ma anche questi furono danneggiati più volte e dovettero essere faticosamente sostituiti da subacquei locali. Nonostante le difficoltà, il sito del relitto fu adeguatamente esaminato, il materiale all’interno del relitto fu scavato e recuperato e le travi rimosse e collocate in una vasca serbatoio per la loro conservazione.
Gli archeologi stabilirono che si trattava di una nave da carico, costruita interamente in legno di quercia (Quercus sp.). Aveva un fondo piatto e, sebbene mancasse la sezione di prua, si ritiene che avesse una forma simmetrica, con pali di prua e poppa incollati alle estremità della chiglia in tre parti. Le assi che componevano lo scafo e le paratie esterne della nave erano stati inchiodati su circa quaranta telai in legno usando dei chiodi di ferro.
Tavole più piccole erano state inserite tra gli stalli più grandi, per aiutare a formare la curvatura dello scafo. Tutte le assi erano semplicemente unite insieme e le giunture erano state calafatate con trucioli di legno. Gli stessi chiodi di ferro erano incastonati in anelli a calafataggio, con le estremità erano piegate (serrate) all’interno delle strutture per rendere maggiormente sicura la struttura.

anfore ritrovate all’interno del relitto
Gli archeologi ritengono che questa grande nave romana fu costruita seguendo le tradizioni celtiche, come in altri siti di relitti (Blackfriars 1) ma aveva in dotazione delle apparecchiature più evolute come una bella pompa di sentina con cuscinetti in bronzo, una strumentazione tipica a bordo delle imbarcazioni mediterranee. La nave era originariamente lunga circa 20 metri, con una larghezza massima di circa sei metri e un’altezza al parapetto di almeno tre metri. La parte sopravvissuta ammonta a circa 18 metri e risultano mancanti circa quattro metri della poppa. La propulsione era ottenuta grazie ad una vela quadra, con un singolo albero di almeno tredici metri di altezza, installato a circa un terzo della lunghezza della nave dalla prua e sostenuto, al livello del ponte, da un montante. Sembrerebbe che la nave avesse a poppa una piccola struttura (castello) con un tetto di tegole, che probabilmente conteneva la zona di cottura e preparazione del cibo. Curiosamente la quantità di vasellame e altri oggetti “personali” ritrovati nel relitto suggerisce un equipaggio di sole tre persone. I materiali, di diverse provenienze (Nord Africa, Spagna, Francia e Inghilterra) fanno ipotizzare che provenisse o avesse contatti con quelle regioni.

modellino del relitto conservato nel locale museo di Guernsey
Per quale motivo affondò?
Dall’esame dei travi emerse che la nave di Guernsey subì un incendio a bordo (probabilmente verso poppa) che distrusse efficacemente tutto al di sopra della linea di galleggiamento. Forse i marinai cercarono di salvare la nave dirigendosi vicino alla riva. L’assenza di resti del carico fa anche presupporre che il suo carico fosse già stato scaricato. L’incendio forse avvenne mentre stavano cercando di cucinare il loro pasto e si propagò velocemente sulle strutture esterne. Non furono ritrovati resti umani per cui i marinai probabilmente si salvarono gettandosi in mare.
Una tragedia di due millenni fa nelle gelide acque della Manica ma anche una testimonianza importante di quella marittimità in oceano in epoca romana che consentiva gli scambi con le varie Regioni dell’Impero.
Andrea Mucedola
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. E’ docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione scientifica.
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