ARGOMENTO: RELITTI
PERIODO: XX SECOLO
AREA: MAR LIGURE
parole chiave: piroscafo S.S. NINA, relitto delle catene, relitto, wreck
Il passaggio della cometa di Halley fu un evento magico che, almeno storicamente, tutto il mondo ricorda con piacere o con paura. L’ultima immersione che abbiamo svolto sul piroscafo S.S. NINA, detto il relitto delle catene, è stato davvero un evento “miracoloso” per noi subacquei, un’evento da ricordare, almeno per me e il team con cui mi sono immerso.
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Abbiamo iniziato a pianificare l’immersione sulla Nina nei mesi precedenti utilizzando foto storiche, articoli, testimonianze di subacquei che erano già scesi sul relitto e non ultimi i preziosi video presenti in rete. Le ricerche condotte dal gruppo G.E.R.S di Domenico Massimo Bondone riportano che il piroscafo S.S. NINA, prima di essere catalogato ufficialmente con questo nome, era stato denominato “Hercules”, una nave supporto per gli aerostati.
Il piroscafo Nina venne costruito su ordine del British Shipping Controller di Londra nel 1919 e in seguito rivenduto agli armatori genovesi fratelli Bianchi. Nel 1943 venne requisita e posta sotto il controllo tedesco. Il 20 febbraio del 1944 colò a picco, probabilmente silurato da un sommergibile britannico a largo di Genova Sampierdarena. |
Ridendo in banchina dico ai miei compagni: “Oggi faccio ritorno”, alludendo al fatto che scendendo in circuito aperto scenderò, tra bi-bombola e stage, con una notevole quantità di elio. Il gommone è carico e questa immersione invernale, strappata a condizioni meteo davvero uniche e favorevoli, ci hanno permesso di pianificare un Run Time di 180 minuti.
Dario Nelli, del Centro Sub Tigullio, sarà la nostra risorsa di supporto logistico e di superficie. Mentre usciamo dal porto ripercorriamo insieme i punti salienti della nostra esplorazione; nei giorni precedenti avevo mappato graficamente i punti e le quote a cui avremmo dovuto trovare e identificare le parti del relitto. Una preparazione necessaria in ogni immersione ma ancora di più in questo tuffo oltre i 110 metri di profondità.
È ora di scendere, ciascuno fa la propria capovolta ai lati opposti del gommone. Ci troviamo a prua per il check macchina e delle bombole. Michele Celada fa la puntualizzazione a pelo d’acqua: “Scendiamo sul pedagno, ci troviamo a poppa; timone, elica, murata di sinistra con spaccatura per vedere le catene all’interno della stiva; si risale sulla murata dove è più bassa, giro verso il cassero, stiva delle catene, albero di carico, argani, stiva della trasmissione dell’elica, giro sullo specchio di poppa e poi si risale”.
Umberto Bona e Andrea Fattore annuiscono per confermare quanto pianificato. Faccio un cenno a Dario Nelli che si sporge dalla prua a mò di “delfiniera” e controlla tutto prima della discesa. Mi chiede conferma del runtime per far scattare il cronometro alla nostra discesa: “180 minuti”, replico io. Ancora due minuti per stabilizzare il respiro e ricercare la giusta serenità prima di immergersi, poi inizia il silenzio.
Incomincia la discesa: 1 minuto, -54m, 2 minuti, -82m. L’acqua da blu è diventata opaca. Strati di nebbia. Mi preparo ad affrontare l’SS Nina nelle sue note classiche condizioni di scarsa visibilità. Preparo negli ultimi metri la strobo con elastici e moschettone per clipparla saldamente alla cima. Continuo a scendere nel torbido, poi improvvisamente si vede chiaramente la poppa, sono a -98m. L’occhio si perde sul piano di coperta e l’emozione è tanta. Il tempo di aprire i fari della videocamera e provare le inquadrature e tutto il team è riunito. Ok a scendere. Lasciamo lo specchio di poppa e seguiamo l’asse del timone per poi arrivare alle quattro possenti pale dell’elica. Che spettacolo!
Dal fondo dei -115m si vede la cima di discesa; guardando a sinistra si scorge buona parte della murata. Restiamo per qualche minuto in contemplazione dell’elica concretizzata tra strati di ostriche, poi guadagniamo qualche metro di quota per arrivare alla spaccatura nella murata. Senza puntare le torce, tanto è chiara l’acqua, si vedono le grosse catene all’interno che danno il nome al relitto. Ancora qualche metro più in su e arriviamo a -103m sulla coperta. L’occhio coglie subito una notevole quantità di dettagli: la luce di via, gli argani e la struttura in parte collassata del vecchio albero di carico.
Puntiamo verso il cassero. Qui si scorge distintamente la scaletta che portava ai ponti superiori, accartocciata sulla murata di sinistra; poi l’apertura che conduce alla sala macchine e all’interno del piroscafo. Accenno una breve penetrazione nel cassero e verso le scale che conducono alla sala macchine. Punti i fari oltre, verso il basso. Il limo è tutto ben sedimentato, l’acqua è trasparente come in un cenote messicano. Si leggono chiaramente tutti i pioli della scala che, salendo, conduce a un ampio salone, mentre scendendo porta al motore della nave.
Esco e con l’acquolina in bocca me ne vado a osservare le catene che costituivano il carico di questa imbarcazione e che oggi ne rendono affascinante l’esplorazione. Le maglie sono davvero possenti: le descrivono come le “catene di Lucifero”. Probabilmente, quando la visibilità è poca, devono dare quest’impressione infernale, dantesca. Oggi non è così.
La seconda stiva, quella più verso poppa, contiene il tubo posto a protezione della trasmissione. Dall’alto già si vede il fondo. Scendiamo fino a -107m. Dentro, l’acqua è cristallina, tant’è che si può contare il numero di bulloni e rivetti che sono stati usati nelle piastre di saldatura dello scafo.
Non so, ma questa osservazione dev’essere un retaggio del corso “Progettazione delle strutture in metallo”, seguito durante i miei anni al Politecnico di Milano, che mi porta ogni volta a studiare le strutture metalliche che compongono l’ossatura e l’architettura dello scafo. Michele Celada e Umberto Bona tagliano prima il giro, io mi spingo fino alla fine della stiva e, con grande stupore, trovo una colonia di gamberi rossi. I loro occhi sono illuminati dalla mia torcia, i miei brillano di felicità. Riprendo la murata di sinistra attorno al cassero in coppia con Andrea Fattore. Giriamo fino alla frastagliata di prua dove si interrompe la nave. Prendiamo quota per qualche metro girando sopra e tutt’attorno al ponte di comando. Le reti a strascico a tratti sembrano un velo di sposa sopra le gruette impiegate per calare le scialuppe. Poco oltre si nota la canna ritorta e collassata del fumaiolo. Sotto di noi scorrono i graticci del castello. La visibilità è così bella che si vedono dettagli unici da lasciare a fauci secche.
Il tempo scorre e il computer “carica” deco come un tassametro, siamo ben all’interno della pianificazione, ma ci sono ancora alcuni dettagli da raccogliere prima di tornare sulla cima di risalita. Mi trovo ora con il compagno d’immersione sul piano di coperta, all’imbocco della stiva, procediamo sulla murata di dritta mentre sfilano davanti a noi due grosse bitte e dei resti di verricelli. Raggiungiamo lo specchio di poppa, manca solo un minuto a risalire, preparo il wet note dove ho trascritto il mio piano decompressivo.
Stacco la strobo dalla cima, sotto di noi, poco alla volta scompare nella nebbia. Arrivato ai -82 m è ora di passare alla prima sosta decompressiva; d’ora in avanti sarà un turbinio di pensieri. Ondeggio tra un deep stop e l’altro mantenendo sempre alta la concentrazione, maggiore è la tranquillità d’animo. Certo, d’ora in avanti inizia la parte più critica dell’immersione. A -47 metri compare un Mola Mola, che luccicando scompare nel blu. Oggi a me resta ancora molto tempo per crogiolarmi nei ricordi del relitto, i granchi facchino sul ponte di coperta che battevano le chele, le rosse conformazioni batteriche di rustiti nelle stive … e il profondimetro che. lento lento, abbassa la profondità media fin quando batte i 30!
È ora ti tornare in superficie, sono passati esattamente 180 minuti da quando l’aveva lasciata. Tutto torna al punto di partenza. Sulla banchina ci accoglie Lorenzo Del Veneziano, è bello ritrovarlo dopo qualche tempo. Nemmeno il tempo di togliersi la muta che subito ci confrontiamo sul relitto e i suoi passaggi. Ora ho qualche indizio in più per tornarci ed andare a cercare l’archetto che sosteneva la campana del SS NINA. L’avventura continua.
Andrea “Murdock” Alpini
TDI Diving Instructor #26784
Trimix Ipossico & Advance Wreck Instructor
www.wreckdiving.it
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è subacqueo e Instructor Trainer tecnico TDI, SDI, CMAS, PTA, ADIP. Si immerge dal 1997 in circuito aperto in acque marine e lacustri, prediligendo i relitti, sia storici che moderni. Recentemente ha pubblicato il suo primo libro di subacquea e di avventure per mari, oceani, grotte e laghi: DEEP BLUE Storie di relitti e luoghi sommersi, edito da Magenes Editore. Nel 2024 ha ricevuto il Tridente d’oro
Buongiorno, a completamento dell’articolo, aggiungo che la campana venne individuata sul troncone di prua a circa 160 mt di profondità e recuperata (non dal sottoscritto).
In una conferenza venne dichiarato che essa non recava alcuna scritta attestante il nome della nave, caso assai raro.
Sono reperibili sul web immagini a conferma, cordiali saluti.
Grazie per l’autorevole commento.