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livello elementare
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ARGOMENTO: EMERGENZA AMBIENTALE
PERIODO: XXI SECOLO
AREA:OCEANO ATLANTICO OCCIDENTALE
parole chiave: Dead zone, aree anossiche, inquinamento
Una emergenza poco conosciuta ma i cui effetti sono purtroppo ormai visibili in molte parti del mondo è lo sviluppo di “zone morte” ovvero aree marine dove, a causa della sproporzionata fioritura delle alghe, viene a mancare l’ossigeno che consente la vita nell’ecosistema.
La NOOA, National Oceanic and Atmospheric Administration, ha reso pubblico che nel Golfo del Messico si è formata un’immensa zona morta. In quella vasta area marina avvengono fenomeni importanti di moria di pesci e crostacei, risultato diretto delle concentrazioni mortali di vari tipi di inquinamento, di microrganismi patogeni e di fioriture algali nocive chiamate maree rosse.
E’ noto che quando il fenomeno diviene molto esteso e continuo nel tempo si generano zone morte (dead zone) visibili anche ad occhio nudo. Naturalmente la zona grigia, nell’immagine, è quella in cui la vita è quasi del tutto scomparsa.
Ma come è potuto accadere?
Le piogge estremamente pesanti e lo scioglimento delle nevi hanno dilavato quantità massicce di sostanze nutritive, in particolare azoto e fosforo, dai prati, dagli impianti di trattamento delle acque reflue, da terreni agricoli e da altre aree lungo il fiume Mississippi, trasportandole nel Golfo del Messico. Una volta nel Golfo, queste sostanze nutritive, che sono necessarie per la crescita delle piante e delle colture agricole, hanno provocato la fioritura di alghe che hanno reso difficile, se non impossibile, la sopravvivenza della vita marina locale.
La NOAA, che ha finanziato la ricerca degli scienziati, stima che questo fenomeno ha un costo sociale rilevante, solo in perdite nella produzione di frutti di mare e di turismo, oltre 82 milioni di dollari all’anno. L’impatto potrebbe essere devastante per l’industria della pesca del Golfo, che rappresenta più del 40 per cento dei frutti di mare allevati negli Stati Uniti. Lo stato più colpito è la Louisiana, secondo nella produzione di frutti di mare solo all’Alaska. Poiché i pesci tendono a migrare per evitare la zona morta, i pescatori sono costretti a viaggiare più lontano per pescare. Questo nuovo fattore si aggiunge ad altri ben noti legati all’inquinamento causato dall’industria petrolifera ed alla stagionalità di una zona come il Golfo del Messico da sempre fortemente colpita dagli uragani.
Tutto finisce in mare
Scienziati delle Università della Louisiana e del Michigan hanno recentemente monitorizzato ed analizzato il flusso delle sostanze nutritive provenienti dalle regioni interne e riversate in mare a seguito delle recenti inondazioni. Il rapporto ha sottolineato che il fiume Mississippi, i suoi affluenti e le pianure alluvionali e il Golfo sono un sistema interno profondamente collegato in una rete fluviale complessa ed antropizzato che provoca la raccolta di residui di fertilizzanti che vengono poi trasportati in mare. La formazione di quest’area, nelle acque del Golfo del Messico, nota dalla fine degli anni ’50, è stata studiata dagli anni ’70 e, negli ultimi anni, attentamente monitorizzata dalla NOAA che ha, ad oggi, misurato una zona a rischio di quasi 23 mila chilometri quadrati, duemila in più rispetto alle previsioni. Nel 2002 l’area morta del Golfo del Messico comprendeva circa 1900 miglia quadrate sulle 8.449 osservate. La dimensione media della zona morta negli ultimi cinque anni è stata di circa 5.806 miglia quadrate, tre volte superiore a quella iniziale. Le morie di pesce sono quindi divenute un indicativo dell’aumentare di questa emergenza.
L’allarme era già stato lanciato nella primavera del 2013, quando l’abbondanza di precipitazioni che si era abbattuta sul Midwest americano aveva alimentato la portata dei fiumi che, a loro volta, avevano riversato in mare notevoli quantità di azoto e fosforo, utilizzati come concimi dall’industria agricola. La conseguenza era stata una proliferazione di alghe che avevano ucciso gli altri organismi marini. A distanza di tre anni questa ‘zona morta’ si sta estendendo sempre più, al largo della costa della Louisiana. Come dicevamo, a rischio non c’è solo l’habitat marino, ma la stessa industria ittica. Dall’aragosta ai granchi ed ai gamberetti, i primi effetti si vedono, con i prezzi che continuano a salire per le difficoltà a reperire la materia prima.
Queste proliferazioni possono essere raffrontate a degli squilibri interni. nel nostro corpo, quando la flora intestinale diventa squilibrata, un fungo, la Candida albicans, colonizza il tratto gastro intestinale, prendendo il sopravvento sui batteri eugenetici necessari per una corretta digestione ed assorbimento di sostanze nutritive. Se non combattuta, la candida può causare una candidiasi sistemica che, in definitiva può dare origine a molti fastidi fino ad insidiare gravemente gli organi interni. Allo stesso modo, quando il normale equilibrio di entrambi i microrganismi eugenetici e patogeni di un area marina viene mutato, si proliferano le invasioni pericolose di batteri, le fioriture di alghe tossiche (mucillagini) e altri abitanti microscopici che compromettono la nostra salute. Un rapporto dell’organizzazione ambientalista statunitense Mighty Earth ha confermato la fonte di inquinamento ovvero le grandi quantità di tossine e nitrati presenti nei concimi, nei fertilizzanti e in altre sostanze nutritive usate dall’industria agricola che favoriscono la crescita record di alghe e fitoplancton. A causare la profonda ipossia è il processo di iper formazione delle alghe. Le alghe consumano ossigeno durante la notte per il processo noto come respirazione cellulare. Quando le alghe muoiono, affondano sul fondo dell’oceano e vengono decomposte dai batteri che usano l’ossigeno dell’acqua e ne abbassano ulteriormente il livello. Questi due processi, la crescita eccessiva di alghe e la decomposizione delle alghe, creano aree con ossigeno molto basso (aree ipossiche). I pesci e altri organismi marini hanno bisogno dell’ossigeno per sopravvivere per cui la vita marina o abbandona la zona o muore, e l’area ipossica diventa una zona morta. Senza ossigeno si riducono anche le capacità riproduttive e, con esse, le quantità e qualità del pescato.
Secondo il NOOA, nel solo mese di maggio 2017, nei fiumi Mississippi e Atchafalaya, a causa delle piogge, sono state sversate oltre 22 mila tonnellate di fosforo.
Influenza dell’industria della carne rossa
In un mercato come quello americano, che privilegia una alimentazione ricca di carni rosse, il problem diventa ancor più sensibile. Sempre nel rapporto di Mighty Earth, si trova che gran parte dell’inquinamento del Golfo del Messico da concimi e fertilizzanti proviene dalle enormi quantità di mais e soia che vengono utilizzate per allevare gli animali da macello. Secondo l’associazione, che ha confrontato i dati della catena di approvvigionamento dei produttori di carni e mangimi negli Stati Uniti con quelli sulla concentrazione di nitrati, tra le aziende più inquinanti vi sono i grandi nomi dell’industria della carne, già imputati di primo piano da parte degli ambientalisti per il loro ruolo nel riscaldamento globale. Non dimentichiamo che il 74 % delle emissioni dei gas serra è composto da metano, generato dai microorganismi che sono coinvolti nel processo di digestione animale, e dal protossido di azoto attraverso la decomposizione del letame. Altro fattore coinvolto è la deforestazione per la trasformazione di grandi aree in nuovi pascoli per poter soddisfare l’aumento della domanda di carne rossa.

La zona morta del Golfo del Mexico nel luglio 2017. Le diverse colorazioni indicano i livelli di ossigeno. (Courtesy of N. Rabalais, LSU/LUMCON). Per maggiori informazioni seguite il link https://gulfhypoxia.net/
Si può fare qualcosa?
In sintesi, un emergenza ecologica che sta portando gravi effetti non solo sul lato biologico ma anche su quello economico. Oltre 200 aree con diverse dimensioni sono state dichiarate “dead zone” nell’ultimo lavoro delle Nazioni Unite sullo stato degli oceani. Le fasce fortemente inquinate, che vanno da 2 a 75.000 chilometri quadrati di superficie, sono aumentate del 34% rispetto a 5 anni fa e con un tasso di crescita del 14% nel 2030. Per fortuna il danno può essere riparato. Ad esempio il Mare del Nord, dopo la riduzione del 37% dell’azoto dei fertilizzanti indirettamente rilasciati nel fiume Reno, tra il 1985 e il 2000, il mare è ritornato ad essere vivo. Come sempre dipende solo da noi. Bisogna fare scelte consapevoli e ecocompatibili se vogliamo assicurare un futuro alle nuove generazioni. Ma forse questo concetto deve essere ancora maturato negli Stati Uniti e, intanto, il golfo del Messico sta morendo.
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare.
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