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NO PLASTIC AT SEA

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Petizione OCEAN4FUTURE

Titolo : Impariamo a ridurre le plastiche in mare

Salve a tutti. Noi crediamo che l'educazione ambientale in tutte le scuole di ogni ordine e grado sia un processo irrinunciabile e che l'esempio valga più di mille parole. Siamo arrivati a oltre 4000 firme ma continuiamo a raccoglierle con la speranza che la classe politica al di là delle promesse comprenda realmente l'emergenza che viviamo, ed agisca,speriamo, con maggiore coscienza
seguite il LINK per firmare la petizione

  Address: OCEAN4FUTURE

La struttura di una barca a vela in VTR: cosa sapere e cosa controllare

Reading Time: 13 minutes

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livello medio

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ARGOMENTO: NAUTICA DA DIPORTO
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: MANUTENZIONE
parole chiave: acquisto barca da diporto, controlli, vetroresina

 

Cosa andiamo a valutare oggi quando compriamo una barca da diporto?
Nell’acquisto di una imbarcazione a vela ognuno rimane affascinato da aspetti diversi. Sicuramente per molti è importante l’estetica insieme al numero di cabine e di bagni “pro-capite”, gli accessori e i comfort in dotazione come winch elettrici, desalinizzatore, spie luminose (possibilmente in quantità), tendalini, sprayhood, bimini top e lazy bag.

Ma soprattutto molti ammirano incantati la larghezza e l’abitabilità della poppa. La barche di oggi sono ormai diventati triangoli con “baglio totalmente arretrato a poppa” e “zavorre con bulbi sempre più in basso” per creare un momento raddrizzante più elevato possibile. Sono diventate barche meno equilibrate di una volta e, quando sbandano, immergono volumi diversi lungo il proprio asse longitudinale, non mantengono la rotta molto bene e le forme “a triangolo isoscele” le portano facilmente all’orza.

Per mantenere l’equilibrio idrostatico la prua si deve immergere e tuffarsi di più che la poppa spostando in avanti il proprio BARICENTRO DI CARENA, mentre quello di spinta del vento sulle vele resta più a poppa di quest’ultima e la barca tende a venire all’ORZA.

Come la forma segue dunque la funzione (di abitabilità), la navigazione segue le correzioni per rimanere in equilibrio (l’autopilota ha questo compito) e i “bordi” che durano sempre meno non hanno il tempo di segnalare una costante resistenza idrostatica sul timone. La struttura della barca si adatta e segue tutto questo insieme di forme, usi e materiali sempre più performanti.

Scafo e fasciame: materiali e principi progettuali
Come in uno spot pubblicitario rimaniamo affascinati spesso da particolari fibre dai nomi esotici e “aramidici” molto convincenti come fossero gadget commerciali! “Kevlar Powered”, “Aramat engineered” o “Carbonium Equipped” che solo pronunciarli ci si sente esperti in materia, rassicurati dalla “pelle di acciaio” del nostro scafo. ma soprattutto si immagina che sia un monolitico in aramat o kevlar®. In realtà molto spesso sono gli ultimi due o tre strati esterni ad essere pubblicizzati come “giubbotti antiproiettili”, il resto spesso rimane poliestere, vinilestere e filamenti di vetro E “.

Scegliere una barca è un compito difficile ed è più rischioso che comprare una casa. In mare se accade qualcosa non possiamo scendere per strada o allontanarci per metterci in sicurezza. Bisogna conoscere almeno i principi che garantiscono a uno scafo di essere strutturalmente integro e mantenersi tale nell’uso. Scegliere una barca leggera, rigida, indeformabile e sottile, oppure una barca più pesante, deformabile e spessa?

E’ una questione di stile, di moda o di ingenua inconsapevolezza?
La tendenza attuale è di leggerezza e scarsa deformabilità, scafi, vele e attrezzature rigide e che pesano il meno possibile!
FRP (Fiber Reinforced Polymers) , GFRP (glass fiber-reinforced plastic), GRP (glass reinforced polyester), VTR (vetroresina), PRFV (plastica rinforzata con fibre di vetro), GFK (Glasfaserverstärkter Kunststoff) sono tutti i nomi utilizzati per indicare un materiale fibro-rinforzato o più semplicemente il nostro scafo monolitico in vetroresina!

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è MAT.jpgIl PRFV (Poliestere Rinforzata con Fibra di Vetro), la nota vetroresina (VTR) è un materiale composito fatto di fibre (di vetro, di carbonio, di kevlar ecc.), principalmente E-glass (60% ~ 70% del volume totale) annegate in una resina (matrice polimerica) spesso poliestere orto o la più performante isoftalica (30% -40% del volume totale). In alcuni casi si usa la vinilestere e in altri la potente epossidica, utilizzata per lo più con fibre di carbonio e aramidiche.

 

Nota: Indicativamente per impregnare 1 Kg di MAT in fibra di vetro occorrono circa tre Kg di resina poliestere. Mentre con le epossidiche è sufficiente 1 kg. di miscela resina/indurente per impregnare un kg. di tessuto di vetro. La matrice che trasferisce le sollecitazioni alle fibre è di caratteristiche meccaniche certamente inferiori a queste ultime e in qualche modo “diluisce e indebolisce” le proprietà assolute del composito nel suo complesso, anche se, in ogni caso, rimangono proprietà molto alte.
Il VETRO “E” una volta “resinato” diventa quindi un composito PRFV.

Le caratteristiche di resistenza a trazione e di allungamento di una fibra pura di vetro-E non ancora lavorata riceve un degrado, anche del 50%, dovuto a inevitabili danneggiamenti microstrutturali che si introducono per sfregamento sulla superficie delle fibre sia durante il processo di tessitura, sia durante la stessa laminazione. Una fibra vergine di vetro E, ad esempio, ha valori di resistenze a rottura a trazione elevatissimi di circa 20-2400 Kg/cm² rispetto al “composto” PRFV, lavorato e addensato con poliestere, che è notevolmente inferiore.

La grandezza fisica che meglio esprime e caratterizza i materiali usati nella costruzione di scafi in VTR è il MODULO DI ELASTICITÀ o di Young. E’ il rapporto tra la tensione cui il materiale viene sottoposto e il suo conseguente allungamento, in sintesi “quanto si deforma un materiale una volta sottoposto a forze meccaniche”.

Il modulo elastico “E” insieme al peso specifico ( kg/m³) e il carico di rottura a trazione (kg/cm²) sono i parametri di base da cui si sviluppa un progetto equilibrato tra resistenze, pesi e rigidezza. Uno scafo in PRFV (poliestere con fibra di vetro) ha un carico di rottura di circa 1-1.300 kg/cm², un peso specifico di circa 1500 kg/ e un modulo elasticità di circa 70.000 N/mm².

Uno scafo in Kevlar tipo 49 (fibra aramidica con resine vinilestere o epossidiche) ha un carico di rottura intorno ai 30000 kg/cmq, un peso specifico di circa 1400 kg/mc e un modulo elasticità di circa 125.000 N/mmq.

Il peso di entrambi è quasi simile e a favore del kevlar ma a parità di peso la resistenza a trazione del kevlar è 30 volte superiore con un modulo di elasticità elevatissimo rispetto alla vetroresina e quindi particolarmente rigido e indeformabile. Il Kevlar ha il grande limite della resistenza a compressione che raggiunge appena il 20% dei valori a trazione. Ottima resistenza all’impatto e scarso allungamento. Molto debole quando il carico non è nella direzione delle fibre, ma è tenacissimo ed insuperabile per i carichi di trazione.

L’elasticità dei materiali è un aspetto non trascurabile e di importanza notevole nella scelta dello scafo e soprattutto dell’uso che se ne fa.

Nello scafo in VETRORESINA (come nelle vele in dacron) il modulo elastico ha valori molto bassi rispetto ad altri compositi più performanti, così come lo sono le resistenze a rottura. Questi materiali “ruspanti” hanno però la pregevole caratteristica che più si tirano, più si allungano raggiungendo deformazioni visibili prima di rompersi, “avvisando” quindi elasticamente del rischio di rottura e di una imminente deformazione plastica irreversibile molto prima che essa avvenga.

PIÙ È ALTO IL MODULO DI ELASTICITÀ E MENO IL MATERIALE SI DEFORMA, PIÙ È ALTO IL CARICO DI ROTTURA E MENO SPESSORE SI PUÒ USARE.
Tutta la barca è quindi un insieme di tessuti e fibre disposti principalmente nel senso delle trazioni e tenuti insieme da resine. Questa tendenza a utilizzare alte resistenze a rottura vale principalmente per la trazione, meno per la compressione. Il passaggio di un’onda o qualsiasi altro stress in navigazione provoca, in tutte le parti della barca, in rapida successione, entrambe le sollecitazioni! Una trazione su una faccia porta sempre una compressione sulla faccia opposta, fino a diventare sollecitazioni nulle lungo l’asse mediano, asse neutro.

Questo fenomeno, ben noto a tutti, prende il nome di Flessione
La condizione essenziale per definirsi tale sta nella omogeneità della sezione che deve essere “piena” (come una trave di ferro, di legno o di calcestruzzo). Le nostre barche all’interno sono però vuote, sono simili più a dei tubi o profili scatolari cavi rastremati simmetricamente alle estremità, oggi solo verso prua. Quando cavalchiamo ad esempio un onda o ci troviamo sospesi sorretti (pur per pochi secondi) verse le estremità come una trave cantilever, lo scafo sulla cresta si inarca e nel cavo si insella e subisce diverse forze contemporaneamente. Una trazione del fasciame inferiore e una compressione della coperta, una forza statica di zavorra per gravità verso il basso, altre sollecitazioni dinamiche laterali sulla deriva dalla spinta idrostatica e trasversale di portanza che si oppone allo scarroccio, insieme a uno “stiramento” e flessione longitudinale del tiro di paterazzo e strallo che comprimendo l’albero sul fasciame (carico concentrato) intorno all’attacco della chiglia, tira e insella le estremità di poppa e prua. Insomma, agiscono forze complesse e non omogenee, condizionando calcoli strutturali non riconducibili a una sola trazione fondo scafo e compressione della coperta. I collassi eventuali (vedi zona di attacco scafo-deriva) avvengono per punzonamento/taglio, forza responsabile più della flessione, di eventuali cedimenti e “crolli”. Il sistema scafo/pinna di deriva è molto simile a quello terrestre tra plinto/pilastro, dove le verifiche maggiori sono appunto per taglio. L’insieme di tutte le forze, che insistono e convergono concentrate sulla superficie superiore della pinna di deriva devono diffondersi nello scafo attraverso tre zone: lo spessore del guscio, la discontinuità dei prigionieri di collegamento e lo scheletro di irrigidimento del guscio interno.

Gli spessori e il peso di uno scafo, se da un lato limitano le prestazioni in termini di velocità, dall’altro ne aumentano, se mantenuti senza traumi, la durata nel tempo.

NOTA: La rigidità di un laminato dipende dal cubo del suo spessore (S^).

Una volta la vetroresina era data a rullo, con tempi e temperature più o meno a occhio e senza studiare il processo in modo ingegneristico, si otteneva il risultato SOVRADIMENSIONANDO tutto. Non si sapeva molto e quindi SI ABBONDAVA, specialmente con le basse prestazioni della più economica e usata poliestere ortoftalica.

Tutto una volta era legato e c’era anche lo specchio di poppa che “chiudeva” e reggeva molte torsioni e carichi notevoli, ma ospitava sicuramente meno persone in pozzetto! Spesso consideriamo le barche di una volta fatte meglio o è un falso mito? Per timore nel passato si catalizzava a occhio, si usava tanto mat o tanta resina in proporzioni anche sbagliate, e non si avevano le idee molto chiare su tante cose!

Alcuni realizzavano grandi barche, bellissimi disegni e ottime costruzioni, ma erano poche e le barche in questione erano fuori della portata della massa, per loro, invece, esisteva una produzione di serie, di barche avvolte non migliori rispetto a quelle di serie attuali.

Oggi ci sono resine migliori, tabelle di laminazione più precise, tecniche di infusione e operatori più esperti. Le fibre composite e le tecnologie sottovuoto e di infusione permettono di realizzare gusci veramente resistenti e leggeri ( paragonati alla tradizionale vetroresina) e in caso di urto, la forza di inerzia derivante è comunque molto inferiore. Il Kevlar e il Carbonio sono materiali strepitosi (se utilizzati con criterio) con un modulo di elasticità elevatissimo fino ad arrivare a rottura improvvisa e senza apprezzabili preavvisi. Il difetto (se così vogliamo chiamarlo) è quindi nella loro rigidità, nella mancanza di deformazione.

Hanno una resistenza enorme ma, nel momento in cui cedono, si disintegrano. Alcuni grossi cantieri costruiscono oggi barche da crociera secondo la richiesta di maggiore leggerezza (togliendo quindi peso) adottando però come materiale sempre il PRFV.

TOGLIERE SPESSORE AD UN MATERIALE CHE PESA MOLTO MA CHE RESISTE POCO È UN ERRORE
Gli spessori diminuiscono sempre di più grazie alla tecnologia che è cambiata e l’utenza vuole scafi sempre più leggeri e performanti, per arrivare primi! Alcuni scafi “moderni” dopo poco tempo risultano delaminati o hanno controstampi scollati o cricche da stress, flettono e si torcono senza nemmeno aver fatto traversate impegnative. Dai 45-50mm sul fondo scafo vicino alla pinna dove un tempo una martellata ti rimbalzava nei denti e si conservava il disco stratificato rimasto nella punta a tazza del trapano per una nuova presa a mare come memoria di un passato di “spessore”, oggi abbiamo anche 18-25 mm, ma però in carbonio o kevlar!

E’ meglio avere uno scafo sottile e rigidissimo (compositi con fibre aramidiche, carbonio o kevlar) oppure spesso e elastico (vetroresina)?
I materiali più elastici e quindi più “spessi” trovano risorse e riserve nei loro carichi di rottura perché conservano sempre una scorta di deformazione apprezzabile. Materiali più rigidi con spessori molto bassi una volta raggiunto il loro carico di rottura si rompono. Un laminato non deve flettersi molto perché la resina (in particolare poliestere orto) ha scarse caratteristiche meccaniche e si allunga molto prima che le fibre iniziano a sopportare i carichi.

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Strutture interne e rinforzi
Nelle barche moderne con chiglia “appesa e imbullonata” la zona del fasciame tutta attorno al profilo superiore della pinna di deriva è il punto più delicato di tutto lo scafo. L’accoppiamento scafo-deriva è una zona fondamentale, come l’attacco delle lande, la base dell’albero insieme a tutto quel misterioso groviglio di orditure strutturali di irrigidimento all’interno delle nostre sentine. La normativa di riferimento sul dimensionamento del fondo scafo e della pinna è la CE – Iso 12215-9 del 2018.

– Scheletro, ragno strutturale e controstampi
La soluzione più usata nelle barche con deriva “imbullonata” è quella di posizionare sul fondo strutture collegate tra loro madieri, correnti longitudinali, ordinate e serrette per diffondere gli sforzi concentrati provenienti dalla deriva, dall’albero e dalle lande e per irrigidire il “tamponamento” in vetroresina.
Abbiamo a che fare con travi metalliche, nervature scatolari in composito con anime in espanso e pvc o come nel recente passato in legno resinato. Il tutto posato in opera e laminato manualmente sulla pelle interna, oppure troviamo strutture controstampate prefabbricate e poi incollate con resine “caricate” e ( non sempre ) “fazzolettate” allo scafo. Tutto questo è presente in ogni scafo sotto il paiolato in quella zona il più delle volte poco considerata, spesso solo per ripulire la vaschetta della ghiotta centrale o per rifornirsi di qualche bottiglia di vino lasciata al fresco in sentina.

I controstampi integrali includono anche il fondo della sentina non più però raggiungibile e ispezionabile. I controstampi semi-integrali, invece, sono bucati nella parte bassa tra un madiere e l’altro permettendo l’ispezionabilità e una stratificazione di collegamento a scafo maggiore. Questo ragno strutturale, ormai diventato sempre più collaudato e di serie nella produzione, è quindi un’ossatura che ingloba madieri e longheroni, la base d’albero, il supporto del motore e avvolte la struttura di aggancio delle lande e la base del mobilio. Viene di norma laminato manualmente sopra un unico stampo femmina, evitando così interruzioni di tessuti, con rinforzi in tutti i madieri e longitudinali. Viene poi incollato e laminato a scafo creando una struttura scatolata monolitica. I passaggi dei tubi e dei cablaggi elettrici predisposti e rinforzati in anticipo durante lo stampaggio del ragno evitano forature postume che indebolirebbero la struttura. I madieri (trasversali) e le costole (ordinate) del fianco, su cui spesso insistono le lande sartie sono rinforzati e avvolte in collegamento strutturale “da falchetta a falchetta” passando per la chiglia.

– Pinna di deriva e bulbi
Uno scafo in PRFV ha dunque una capacità elastica a deformarsi reversibilmente ma la lama di deriva ad esso collegata (ghisa o piombo) è rigida e l’accoppiamento non è tra i più intimi e rassicuranti. Una volta si raccordavano e bloccavano le pinne allo scafo, sia in senso trasversale che longitudinale, erano le cosiddette “chiglie stellate”. Oggi non si “accompagna” il guscio alla lama, esce dritto, profondo e sottile. Il fasciame inferiore dello scafo nella sua elasticità flette, si insella, si torce e reagisce dinamicamente alle spinte e carichi ma la superficie superiore della deriva rimane rigida senza adattarsi al sistema elastico a cui è stato integrato. Un pò è come collegare un pannello di cartongesso a battuta su una trave di castagno di un soffitto. Entrambi si comportano diversamente ed i movimenti crepano e distaccano la giunzione, inizialmente perfetta e continua, ma non per questo crolla! Molte crepe e fessure sono spesso estetiche.

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photo credit @Sacha Giannini

Chiglie lunghe strutturali, con pinna trapezoidale imbullonata, lame con siluri e bulbi, in ghisa sferoidale ferritica o austenitica con perni avvitati e filettati, in piombo “indurito” con antimonio e prigionieri annegati o con “collari” di controchiglia in VTR integrati a scafo devono essere ben noti per riconoscere come interpretare i segni che nascondono un potenziale problema in quello che è il punto più delicato della barca per la sicurezza e la stabilità.

Fessure e distacchi tra chiglia e scafo, specialmente all’estremità anteriore, possono essere fisiologiche come anche un serio segnale di cedimento della giunzione. Controllare con lo scafo sollevato sulle fasce lo spazio del distacco e, scuotendola, provare ad osservare una eventuale oscillazione della deriva. Pulirla e valutarne la profondità e la natura. Una volta poggiato lo scafo sull’invaso controllarla nuovamente e vedere se rimane aperta o aderisce allo scafo. Macchie di bagnato che non si asciugano ed eventuali colature marroni di ruggine lungo il bordo d’attacco potrebbero indicare e confermare un sospetto di infiltrazione avvolte innocua e apparente nelle derive in ghisa perché fanno ruggine, come al contrario un credibile campanello di allarme in quelle di piombo con perni in inox, perché non fanno ruggine, ma l’inox dei perni si.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è COLLARE-CONTROCHIGLIA.jpg

photo credit @Sacha Giannini

Se si trova acqua salata in sentina (escludendo perdite da prese a mare, trasduttori, tenute meccaniche asse o s-drive, losca timone o circuito raffreddamento motore) è bene accertarsi della causa.

Bulloni, dadi, rondelle o piastre ossidate vanno spazzolate e pulite per valutare che si tratti solo di ruggine superficiale e che non si sfogli e sgretoli a scaglie tra le mani con una colorazione nero scura. Rondelle sotto i dadi di fissaggio affossate sul fasciame con crepe concentriche sul gel coat di barche datate indicano una plasticità del fondo non più reversibile e non un tipico ritiro elastico volumetrico della resina dopo la catalizzazione.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è RUGGINE-BULLONI-SCAFI.jpg

photo credit @Sacha Giannini

La ghisa ha minore resilienza (capacità di assorbire un urto senza rompersi) e maggiore fragilità e generalmente viene incollata allo scafo con sigillanti morbidi. Spesso risulta porosa con presenza di piccoli vuoti e non esente da colature ben visibili. Il piombo è più morbido e duttile, in grado di assorbire bene gli urti ammortizzandoli e l’incollaggio a scafo viene fatto con resina rigide di tipo epossidiche caricata con microsfere (come la nota araldite)

Incappellaggi in vetroresina o in gel coat (originale di cantiere) sulle teste dei perni e dadi, se da un lato sono una garanzia di tenuta negli anni, dall’altro le possibili crepe del rivestimento permettono all’acqua e all’umidità in sentina di infiltrarsi sotto il gel coat bagnando i perni e nascondendo il reale stato di conservazione. Verificare rondelle, piastre e dadi che siano dello stesso materiale dei perni di sostegno per evitare eventuali corrosioni da contatto. I nemici dei metalli sono sempre l’ossigeno, l’umidità e la salsedine. La ruggine spesso è superficiale e protettiva ma nel caso contrario si mangia lentamente tutto!

Verificare che il fasciame non presenti flessioni o avvallamenti anomali a poppavia (segno di un urto) ne crepe o dossi. All’interno i paglioli devono essere ben allineati e complanari tra loro e le porte chiudersi bene. Se così non fosse, specialmente con ossatura controstampata allora qualcosa forse è accaduto!

Le piastre dei prigionieri si possono presentare ossidate in corrispondenza del perno. Può non essere infiltrazione ma la causa è nella foratura della piastra fatta in modo inappropriato, troppo velocemente e senza emulsione oleosa di raffreddamento, il risultato è il surriscaldamento dell’area circostante rendendo ossidabile l’area termicamente alterata.

Alcune chiglie vengono sagomate e integrate nel recesso dedicato alla ghiotta di raccolta dentro lo scafo e incapsulato al suo interno. A mio avviso è un punto debole e spesso causa di possibili infiltrazioni da piccole cricche sulla superficie della vaschetta inglobata nella deriva in seguito a urti o incagli.

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photo credit @Sacha Giannini

In conclusione, un trafilaggio di acqua, anche rugginosa, dai bordi dell’attacco pinna-scafo, la presenza di fratture e distacchi lungo i perimetri dell’incollaggio del controstampo, eventuali crepe sui madieri e longitudinali e i perni-prigionieri fortemente ossidati sono chiari sintomi premonitori di stress o cedimenti strutturali.

Quali controlli fare allora? … di regola alzare i paglioli più spesso!

Sacha Giannini

 

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