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livello elementare
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ARGOMENTO: EMERGENZE AMBIENTALI
PERIODO: XXI SECOLO
AREA: OVUNQUE
parole chiave: microplastiche, nanoplastiche
Secondo il Biodesign Center for Environmental Health Engineering dell’Arizona State University (ASU), particelle microscopiche di plastica sono presenti in tutti i principali organi di filtraggio del nostro corpo. Durante degli esami autoptici, i ricercatori hanno trovato prove di contaminazione da micro/nanoplastiche in campioni di tessuto prelevati da polmoni, fegato, milza e reni umani.

Le plastiche sono ovunque … anche nei cibi e nelle bevande che mangiamo e beviamo quotidianamente. Non è una sorpresa. Che cosa fare?
“Abbiamo rilevato queste sostanze chimiche della plastica in ogni singolo organo che abbiamo studiato“, ha affermato il ricercatore senior Rolf Halden, direttore del ASU.
Questa notizia sicuramente non ci rassicura
Come ricorderete da tempo si temeva che sostanze chimiche contenute nelle plastiche potessero avere un ruolo sulla salute, con effetti che andavano dal diabete all’obesità, dalle disfunzioni sessuali all’infertilità. Questa scoperta, qualora confermata, alza l’asticella sui rischi che queste particelle possono causare per la nostra salute. Ad esempio, come irritanti cancerogeni che potrebbero avere più o meno la stessa invasività dell’amianto.
“Non è sempre necessariamente la chimica che ci danneggia. A volte è la forma e la presenza di particelle estranee nei nostri corpi“, ha detto Halden. “Sappiamo che l’inalazione di amianto porta a infiammazione e che può portare al cancro“. Ricerche precedenti hanno dimostrato che negli Stati Uniti, in media, le persone ingeriscono circa cinque grammi di plastica ogni settimana, l’equivalente di una carta di credito.

fibre di nanoplastiche
“È incoraggiante vedere la ricerca quantitativa di qualità eseguita sugli esseri umani per valutare gli effetti nocivi cumulativi di queste microplastiche“, ha detto Cohen sul nuovo studio. “D’altra parte, è totalmente deprimente vedere cosa i consulenti scientifici nel nostro campo hanno riferito per così tanto tempo riguardo al consumo di plastica“.
Per questo studio, Halden ed i suoi colleghi hanno analizzato quarantasette campioni di tessuto forniti dal Banner Neurodegenerative Disease Research Center dell’ASU, che ha costruito una banca del cervello e del corpo durante le ricerche sul morbo di Alzheimer. I ricercatori stavano specificatamente cercando la presenza di particelle così piccole da poter essere trasferite dal sistema digestivo al flusso sanguigno, dove “sarebbero circolate con il flusso sanguigno e sarebbero rimaste intrappolate in organi di filtrazione come i polmoni, i reni o il fegato ” ha spiegato Halden. Il team ha sviluppato una procedura per “estrarre” la plastica dai campioni di tessuto, quindi le ha analizzate utilizzando una tecnica spettrometrica. Più precisamente i ricercatori stavano cercando particelle di nanoplastiche, con un diametro di 1 micron o 0,001 mm, una dimensione molto piccola se considerate che un capello umano ha un diametro di circa 50 micron.
Il team di ricerca ha quindi creato un sistema di calcolo che potrà aiutare altri scienziati a convertire le informazioni sui conteggi delle particelle di plastica in unità standard di massa e di area superficiale, valori importanti per poter valutare quanta nanoplastica è presente in specifici organi umani. Secondo Halden questo contatore “creerà un atlante dell’inquinamento umano” di fatto una mappa di esposizione del corpo umano a questi contaminanti. Purtroppo è impossibile proteggersi completamente dall’ingestione delle nanoplastiche in quanto sono state riscontrate nei cibi (compreso il sale da cucina), nell’acqua del rubinetto, in quella in bottiglia ma anche nell’aria che respiriamo.
Se ricorderete abbiamo pubblicato a suo tempo diversi articoli che segnalavano la presenza di contaminanti plastici (nanoplastiche) nei cibi di cui ci nutriamo. Ricercatori dell’Università del Queensland, Australia, e dell’Università di Exter hanno trovato plastiche in campioni di cinque diversi animali marini: ostriche, gamberi, calamari, granchi e sardine. Lo studio, Quantitative Analysis of Selected Plastics in High-Commercial-Value Australian Seafood by Pyrolysis Gas Chromatography Mass Spectrometry, è stato pubblicato il 12 agosto 2020 sulla rivista Environmental Science & Technology. I grafici che seguono sono estratte dallo studio.

concentrazione dei diversi tipi di plastiche (PVC, PS, PP. PMMA e PE) nei tessuti a seconda degli alimenti marini (da sinistra, calamari, gamberi, ostriche, granchi e sardine)
Che la contaminazione da microplastiche nell’ambiente marino fosse diffusa era cosa nota ma non è ancora chiaro il suo grado nella rete alimentare marina. Gli obiettivi dello studio erano quindi di andare oltre le tecniche di identificazione visiva e sviluppare e applicare un semplice metodo di estrazione e analisi quantitativa di un campione di pesci, crostacei e molluschi, utilizzando la spettrometria di massa gascromatografica per affinare il rilevamento della contaminazione plastica nei tessuti. Questo metodo ha consentito l’identificazione e la quantificazione di tipi di plastiche come polistiroli, polietileni, polivinilcloruri, polipropilene e altri poli nella porzione commestibile di cinque diversi organismi marini: ostriche, gamberi, calamari, granchi e sardine.
In particolare, il polivinilcloruro è stato rilevato in tutti i campioni e il polietilene alla massima concentrazione totale compresa tra 0,04 e 2,4 mg g – 1 di tessuto. Le sardine contenevano la più alta concentrazione di massa plastica totale (0,3 mg g-1 di tessuto) e il calamaro la più bassa (0,04 mg g-1 di tessuto). I risultati dello studio mostrano che la concentrazione totale di plastica sia altamente variabile tra le specie e che la concentrazione di microplastiche differisce tra gli organismi della stessa specie. Secondo lo studio in Australia, una persona media può ingerire circa cinque grammi di plastica ogni settimana in base al consumo di cibi e bevande comuni, con molluschi e crostacei che contribuiscono a 0,5 g dell’assunzione settimanale totale.
Il metodo descritto nello studio sembra quindi essere un importante sviluppo nella standardizzazione delle tecniche di quantificazione delle particelle di plastica negli animali marini. Se questo può sembrare uno sforzo accademico, in realtà ha una ricaduta importante sulla nostra salute. Voglio essere chiaro. Non bisogna necessariamente smettere di mangiare gli animali marini ma bisogna far sì che l’inquinamento che arriva in mare sia minore.
A questo punto il passaggio all’impiego di posaterie, piatti e bicchieri realizzati in ceramica, metalli o altre materiali non plastici non è più una scelta ma una necessità consapevole. Questo vale anche per gli eventuali imballi che dovrebbero essere evitati, rivolgendoci sempre più a cibi sfusi.
Impossibile?
Nulla è impossibile se si vuole. Si tratta solo di rivedere le nostre abitudini e mitigare l’impatto delle plastiche nei nostri corpi. Per l’acqua che usiamo, un sistema di filtraggio ad osmosi adeguato può ridurre se non eliminare queste particelle. Filtri analoghi possono essere messi sugli scarichi di lavatrici e lavastoviglie. Inoltre porre maggiore attenzione nel riciclo dei materiali palstici, comprese le mascherine anti COVID che stanno diventando un inquinamento preoccupante sia sul terreno che in mare. Si può fare e dipende solo da noi.
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ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. E’ docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione scientifica.
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