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livello elementare
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ARGOMENTO: REPORTAGE
PERIODO: XX SECOLO
AREA: THAILANDIA
parole chiave: viaggio, mare, immersioni
Thailandia: un paradiso da proteggere
La costa orientale della Thailandia, che guarda verso le Andamane, offre al viaggiatore un paese marcatamente differente da quello del nord; alimentata dalla pioggia quasi tutto l’anno, la vegetazione è tropicale, con foreste con alberi che raggiungono gli ottanta metri di altezza, e la presenza di piantagioni di caucciù, di olio di palma e di cocco che sostituiscono i campi di riso e canna da zucchero della Thailandia centrale. Falesie calcaree a strapiombo sprofondano nel Mare delle Andamane che bagna le isole più belle del paese circondate da splendide barriere coralline. Come ricorderete anche questo mare fu colpito dalle onde terrificanti dello tsunami nel dicembre 2004; il terribile evento uccise migliaia di persone, ferendo profondamente la regione. Lentamente, grazie alla stamina del popolo tailandese, l’area sta pero’ riprendendo i propri colori, i turisti stanno tornando e gli hotel vengono ricostruiti tornando al loro antico splendore. Un ragione di più per recarsi a visitare questo splendido paese aiutandolo a risorgere dal terribile evento. L’articolo che pubblico oggi, in realtà, fu scritto nel 1997 per una nota rivista per subacquei, ma nonostante fosse stato accettato dal Direttore, seguenti discussioni in ambito editoriale (che si conclusero poi con le sue dimissioni) lo fecero accantonare in attesa di pubblicazione in considerazione della nuova linea editoriale. Tra l’altro, oltre la delusione, persi anche alcune foto del reportage (tra l’altro non tutte mie); per fortuna il testo originale rimase in un file del mio vecchio computer e, nonostante siano passati quasi 20 anni, rileggendolo, mi è apparso ancora un valido riferimento per coloro che decidono di recarsi in quel paradiso tropicale dove spero di ritornare al più presto.
Thailandia
Fra i magici suoni e profumi dell’Oriente, quelli della Thailandia sono fra i più vivi e ricchi di suggestione. Ciò che colpisce maggiormente il viaggiatore al suo arrivo in Thailandia è lo sguardo degli abitanti di questo lontano paese, occhi scuri e penetranti che si perdono nei dolci sorrisi delle ragazze thai che, avvolte nei loro abiti tradizionali, sembrano aver fermato il tempo all’epoca remota e felice dell’Eden. No, non vi parlerò della Thailandia turistica, dei locali affollati e fumosi nati intorno alle basi americane della guerra del Vietnam, delle ragazze di Patong road e dei locali di body massage, questo racconto di viaggio vuole essere una testimonianza di una Thailandia non del tutto perduta e delle sue meravigliose bellezze naturali ancora sconosciute ai più. Siamo partiti dall’Italia (ndr gennaio 1997), per ricercare tra i volti della gente comune le radici di questo antico e civile Paese e per scoprire se le sue meraviglie naturali ed il suo mare sono sopravvissute all’invadenza consumistica della civiltà occidentale. Il popolo tailandese ha costumi molto semplici; la sua società si basa sulla famiglia, allargata anche ai nonni ed ai parenti più stretti. C’è molto rispetto e l’attitudine mentale è quella di vivere in armonia con la natura e gli altri uomini, accettando con filosofia le “intemperie” della vita e predisponendosi sempre in maniera positiva verso ogni problema. E’ la filosofia del Mai Pen Rai, espressione comune thai che si potrebbe tradurre “non è importante” o “cerca di avere pazienza e tutto si risolverà”. Dopo un breve volo da Bangkok, arriviamo a Phuket, la grande isola meridionale; abbiamo deciso di evitare gli stereotipi delle agenzie, evitando la caotica Patong Beach e la sua vita notturna per raggiungere le isole del piccolo arcipelago delle Pee Pee Islands, prima tappa di questo nostro viaggio.
Volando lungo la costa, a bassa quota, abbiamo intravisto sorgere dal mare grandi piloni di roccia calcarea, erosi alla base dall’opera incessante dei venti e delle onde; in passato furono resi celebri da un vecchio film di James Bond, ”L’uomo dalla pistola d’oro”, e la baia in cui fu girato il film, Phang Nga, è tutt’oggi meta di turisti da tutto il mondo. Queste strutture sono il risultato di sconvolgimenti del fondo del mare di 225 milioni di anni fa; queste montagne, furono spinte verso l’alto quando il subcontinente indiano venne a contatto con l’Asia nel Cenozoico, circa 66 milioni di anni fa. Le formazioni orografiche attuali sono il risultato delle erosioni di queste montagne primordiali causate dalle fluttuazioni del livello del mare e dall’azione periodica dei venti monsonici. Il mare, visto dall’alto, con i suoi mille colori, dall’azzurro ceruleo al blu indaco, al verde smeraldo, sembra non essere da meno. Diretti al porto di Phuket, posto nell’estremità meridionale dell’isola, chiediamo al tassista di portarci al Wat di Chalong, uno dei templi buddisti più suggestivi di Phuket. Lo sguardo meravigliato del autista ci fa comprendere che la nostra richiesta non è usuale e questo ci aiuta a rompere il ghiaccio; ci racconta dell’isola, del turismo e della sua famiglia, dimostrandoci una cordialità ed inaspettata. Arrivati nel grande piazzale esterno, ci accolgono due statue di elefanti, a grandezza naturale, poste a guardia del grande Buddha; sul tetto del tempio dorato, si snoda Naga, il serpente sacro, retaggio della religione indù ed adorato in tutto l’Oriente già da prima dell’avvento del Buddismo. Fra una folla di fedeli, entriamo all’interno del Wat dove, fra fumi di incenso, in un’atmosfera onirica e sfumata come una foto di Hamilton, sono collocate le statue dei monaci che si sono succeduti nei secoli nel santuario. Rivestite di sottilissime e tenere lamine d’oro, poste dai fedeli prima di ogni preghiera, risplendono di una luce irreale in un silenzio rotto solo dai colpi secchi degli astrologi che riversano sul parquet bastoncini divinatori di legno mentre alcune donne portano alle statue offerte di fiori di loto ed accendono lunghe candeline profumate.
Oggi non c’è molta gente, ci dice il tassista, ma ci rivela che durante le feste l’immensa piazza pullula di fedeli che provengono da tutta l’isola. Dopo questa breve parentesi, ci rechiamo al porto di Phuket, nei pressi di Cape Pawna, da dove un ferry ci traghetterà fino all’isola di Koh Pee Pee Don. L’attesa è scioccante; scaricati dal taxi sulla banchina, marcati con un bollino colorato dal responsabile della TAT (autorità del turismo tailandese), dopo l’esperienza mistica del tempio, ci ritroviamo circondati da un orda di giapponesi che fotografano tutto ciò che sta fermo; ci sembra di essere a Roma in Via del Corso il sabato sera. Saliamo sullo shuttle boat che ci porterà al traghetto che, per motivi di marea, non è potuto entrare in rada. Il viaggio è breve e l’isola, in tutta la sua bellezza selvaggia, ci appare all’orizzonte dopo soli 45 minuti di navigazione. Una long tailed boat, la Suay che in thai significa bella, adornata sulla prua da nastri colorati e coroncine di fiori, ci preleva da sotto bordo e ci trasporta al villaggio di Ban Laem Trong. Lo spettacolo iniziale è deludente: piccoli bar, negozietti di abiti usati ed agenzie turistiche si accalcano l’una nussun’altra fra gli accesi profumi del curry e delle spezie usate dai ristoranti; non contenti di ciò che vediamo a prima vista ci rivolgiamo ad un diving per chiedere informazioni sull’isola. Uno degli istruttori, Andrew, inglese ma di madre italiana, ci rivela che il flusso sproporzionato di turisti sull’isola ha già causato sensibili danni all’ambiente e l’inquinamento di alcune aree marine; nonostante gli sforzi continui del Governo di educare le classi più povere alla protezione dell’ambiente ed al riciclaggio dei rifiuti, attraverso pubblicità televisive ed i giornali, il vero pericolo per le isole sono gli innumerevoli villeggianti che si aggirano, come in un grande luna park, alla ricerca frenetica di piaceri effimeri, senza una vera e propria coscienza di danni profondi diretti ed indiretti che portano al patrimonio naturale e culturale dell’isola. I diving, preoccupati dei danni alle barriere coralline, hanno quindi iniziato una battaglia personale per la protezione dell’ambiente marino cercando di intervenire dove le Autorità si sono dimostrate carenti per mezzi o iniziativa; ma la soluzione sembra localmente ancora lontana. Il cammino per una maggiore sensibilizzazione non è facile; un’altro dei responsabili del diving, visivamente preoccupato dell’approccio consumistico esistente, ci racconta che l’attuale situazione non solo non aiuta la risoluzione del problema ma talvolta si contrappone alle molte iniziative di volontariato pertanto non è raro che i ceti più poveri vedano in questi tentativi di regolamentazione del flusso turistico un freno ai propri guadagni e ne ostacolino di conseguenza le attività.
Hin Phae
Per verificare lo stato delle madrepore, effettuiamo un’ immersione a Hin Phae, nella baia di Ton Say; lo spettacolo è desolante; intorno allo scoglio, poco più di diecimila metri quadri, contiamo più di una cinquantina di subacquei; molti sembrano saltare in acqua dalle barche selvaggiamente senza un effettivo controllo da parte dei ship master che assistono impotenti all’aggressione in massa di quel sito.
N.B. il video è del 1993
La formazione corallina in immersione risulta danneggiata in più punti anche se il pesce è ancora abbondante. I siti subacquei di Hin Phae e di Cape Tong, facilmente raggiungibili dall’isola, sono ormai troppo frequentati: reti da pesca e palamiti abusivi, aprono ferite drammatiche sulle formazioni coralline e la frequenza di migliaia di subacquei comporta un inevitabile impatto ambientale causato spesso dall’inettitudine dei più e dall’ancoraggio senza regola dei battelli appoggio che, non utilizzando le boe appositamente posate dai diving, causano danni irreparabili al delicatissimo ecosistema. Non nascondiamo un senso di sconforto e comprendiamo l’appello che da più voci ci viene rivolto nel diving: “aiutateci a porre un limite o almeno una regola a tutto questo; se non saranno presi provvedimenti nel giro di pochi anni questi luoghi saranno devastati irrimediabilmente e questo patrimonio naturale scomparirà”.
Loh Bagao
Nonostante il primo impatto, il giorno dopo decidiamo di proseguire spostandoci nel lato nord orientale dell’isola, nella piccola baia di Loh Bagao. Un’amicizia di viaggio ci ha indicato un villaggio di poche case dove un’intelligente gestione locale ha creato un resort di bungalow su palafitte, armoniosamente integrato nella vita di un vecchio villaggio thai di cui ha conservato i ritmi e le abitudini: il Pee Pee Island Village.
Sta scendendo la marea e bisogna fare quasi un centinaio di metri per raggiungere la tradizionale imbarcazione del resort; spoglia, con un vecchio ombrellone a metà barca, è attrezzata con il classico motore “a gambo lungo” necessario per poter approdare sulle spiagge e risalire i lunghi e stretti canali che penetrano all’interno dell’isola. Tong, il marinaio al timone della barca, è di carattere allegro anche se molto riservato; venendo a sapere che siamo dei subacquei ci fa un sorriso misto di approvazione e di complicità e ci invita a visitare il piccolo diving del resort nel quale lavora come dive master. Vive in una semplice palafitta nella prima fascia di giungla, lontana dall’affollato centro di Baem Long da cui è rifuggito da anni. Non possiamo dargli torto; all’approdo di Ban Laem Trong avevamo notato i cumuli di bottiglie di plastica bianca opaca, ex contenitori di acqua minerale, impietosamente abbandonati o buttati in mare e raccolti pazientemente dai locali in mucchi sulla spiaggia. Ci racconta che, fino a pochi anni prima, le isole erano praticamente disabitate, visitate periodicamente solo dai raccoglitori di nidi di rondine; poi i primi turisti e la conseguente migrazione di circa cinquemila persone, provenienti dalla provincia di Krabì. Con loro le prime comodità, alcuni alberghi di lusso, i diving ed i primi ristoranti tra i quali, ironia della sorte, ce ne segnala uno italiano. Il resort è situato lungo una lunga spiaggia dorata, sotto un palmizio di noci di cocco; è formato da bungalow semplici ma accoglienti e, cosa che ce lo fa apprezzare maggiormente, è immerso nella realtà thai che ci integra immediatamente accogliendoci con cordialità ma senza invadenza. E’ facile fare amicizia; viviamo in un contesto internazionale che sembra però aver dimenticato le proprie attitudini nazionali per sposare quelle locali. Questa mattina, in accordo con la ben tristemente nota legge di Murphy (“everything is not wrong it will be”), la nostra macchina fotografica subacquea incomincia a darci dei problemi. Tong, vedendo la nostra agitazione, ci richiama con un sorriso ironico alla filosofia di vita del Mai Pen Rai e tira fuori dal cassetto delle vecchie fotografie mostrandocele. “Non preoccupatevi” dice “c’è sempre una soluzione a tutto…” e forse, ha ragione lui. Alla sera, dopo un lauto pasto a base di gamberi tigre e di Tom Yam Pla, una zuppa a base di pesce e peperoncino, ci rechiamo al diving sulla spiaggia. L’istruttore ci confida che nell’arcipelago delle Pee Pee Island, grazie ad un diretto intervento dei diving, esistono ancora alcune zone con fondali incontaminati. Decidiamo di partire con lui la mattina dopo; ci vorrà circa un ora per raggiungere i punti di immersione che dalle descrizioni si preannunciano interessantissimi. Sotto la brezza costante del monsone da Nord Est, la barca si infila agilmente fra le onde dirigendosi verso il mare aperto in direzione dell’isola di Koh Pee Pee Leh, l’isola minore dell’arcipelago. In lontananza le sue scogliere ci ricordano un mostro marino che fuoriesce dagli abissi. Lo spettacolo è sicuramente suggestivo; le gigantesche formazioni stalattitiche, che si distaccano dalle pareti come artigli, richiamano alla memoria i draghi della mitologia orientale, i terribili distruttori delle sottili giunche che transitavano nei paraggi. Costeggiamo l’isola e, continuando verso sud, ci dirigiamo verso le Bida. Sono due piccole isole di roccia calcarea ricoperte, sulla sommità, da una lussureggiante vegetazione tropicale di un colore verde intenso dalla quale provengono acute le grida degli uccelli marini.
Koh Bida Noi
La prima immersione prevista è su una parete nella parte sud di Koh Bida Noi, l’isolotto maggiore. Lo spettacolo ci appare subito fantastico: ci immergiamo letteralmente in un enorme branco di centinaia di piccoli barracuda (Sphyraena barracuda) che ci ruotano intorno avvolgendoci lentamente; poco più in basso, un pesce scatola di un color giallo paglierino (Ostracion cubicus) ci viene curiosamente incontro quasi per avvisarci della presenza di due splendidi esemplari di pesce scorpione (Pterois volitans) che si nascondono fra i rami di una gigantesca gorgonia gialla. Scendiamo lungo la parete tra coralli duri di tutte le forme e colori, abitati da pesci farfalla e balestra che ci volteggiano intorno incuranti della nostra presenza; fra di essi un ormai raro esemplare del clown trigger (Balistoides Conspicillum), un tempo molto comune nel mare delle Andamane ed ora quasi del tutto estinto a causa della caccia indiscriminata dei pescatori rifornitori di acquari.
N.B . : video del 2015
Un enorme tridacna (Tridacna gigas) con le sue labbra blu sembra sbarrarci l’accesso in un canalone fra due pareti di anemoni multicolori; in alto una formazione di coralli di fuoco sembra consigliarci un’altra via.
Tridacna gigas da www.reefbuilders.com
L’immersione è veramente fantastica; immersi in un’acqua piacevolmente calda di 28 gradi, a temperatura costante dalla superficie al fondo, ci abbandoniamo alla leggera corrente che ci trasporta intorno all’isolotto in un susseguirsi di incontri con sempre differenti forme animali. Terminata l’aria rientriamo in barca, per dirigerci sul secondo sito, uno shark point non ancora molto conosciuto, a circa due miglia ad est dalla celebre Viking Cave. La grotta è detta “dei Vichinghi” per la presenza sulle pareti di graffiti raffiguranti navi a vela che, in verità, queste navi dalla struttura velica ci richiamano alla memoria più quelle impiegate dalle Compagnie di navigazione occidentali del diciassettesimo secolo che quelle degli audaci navigatori del nord Europa.
La visita, sebbene un classico per i turisti, vale la pena di essere effettuata per osservare dal vivo le estreme condizioni di lavoro dei famosi raccoglitori di nidi di rondine che, dopo aver effettuato una preghiera rituale presso un grande altare naturale formatosi dall’unione di una enorme stalattite con una stalagmite, si arrampicano per raccoglierli sulle pareti interne dell’antro sfruttando solo delle lunghe canne di bambù. I nidi di rondine sono un particolare alimento generato dalle ghiandole di una rondine locale, assai ricercato dai “buongustai” dell’estremo Oriente che sono disposti a pagarlo fino a 300 dollari al chilogrammo. Dopo circa un’ora di navigazione, arriviamo sul posto della seconda immersione. Tong ci racconta essere un vecchio sito di pesca nel quale i pescatori, quando ancora nella zona era permesso pescare, gettavano le nasse. Un tempo, un pescatore scorse dal bordo della barca, a circa 18 metri di profondità, una macchia oscura muoversi sinuosamente sul fondo: era uno squalo leopardo (Stegostoma Varium) che aveva eletto quel posto come sua dimora.
Molti anni sono passati da allora e probabilmente molti squali leopardi, ma il luogo non tradisce mai le aspettative dei subacquei che vi si recano e l’incontro con loro è assicurato, talvolta anche con qualche sorpresa inaspettata come un incontro ravvicinato con il grande squalo balena (Rhincodon Typus), un tempo assiduo frequentatore dell’area. Giunti sulla verticale del punto, segnalata da una piccola boa, ci immergiamo; sul fondo due squali leopardo di quasi due metri riposano indisturbati cullati dalla corrente. Ci avviciniamo con molta cautela per non infastidirli; appoggiati sul sedimento di conchiglia bianco muovono lentamente la lunga pinna caudale. Non è la prima volta che incontriamo questo tipo di squalo ma questa coppia ci sembra diversa o forse è l’atmosfera rilassata della situazione che ce la fa sembrare particolare, in piena sintonia con il Mai Pen Rai. Grandi coralli fungiformi, gorgonie ed un infinità di cipree panterine completano il quadro tra nugoli di branchi di pesce che a tratti si spostano velocemente per sfuggire agli attacchi di un barracuda che sinceramente non ci sembra molto convinto della caccia.
Scorgiamo anche dei bellissimi nudibranchi (tra cui il caratteristico Halgerda willeyi e la Phillidia bourguini) in prossimità di un picco di roccia che risale fino a dieci metri dalla superficie. Fra un tappeto di anemoni, un numero incredibile di piccoli pesci pagliaccio (Anphiprion phrenna) e di splendidi e veloci pesci angelo imperatore (Pomacanthus imperator) ci gironzolano attorno, anch’essi per nulla intimoriti della nostra presenza. Un’esperienza bellissima che ci ricorda la ricchezza di biodiversità dell’Indo-pacifico. Anche quest’immersione, nonostante tutto, ci appare troppo breve; domani ci sposteremo in battello ad Ao Nang, nella Provincia di Krabì, trenta miglia ad Est di Phuket.
fine parte I – continua
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in anteprima Long-tail boats a Maya Beach, Ko Phi Phi Lee, Thailand – autore Diego Delso, File:Playa Maya, Ko Phi Phi, Tailandia, 2013-08-19, DD 13.JPG – Wikimedia Commons

ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare.