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Gli «urinatores», i sommozzatori del mondo romano

Reading Time: 8 minutes


livello elementare
.
ARGOMENTO: STORIA NAVALE
PERIODO: DA I SECOLO a.C. 
AREA: MAR MEDITERRANEO
parole chiave: sommozzatori, porto, servizi portuali, Roma

 

Popolo di navigatori ma potremmo dire anche di uomini avvezzi ai lavori sotto il mare 
L’occasione per parlare dei primi “palombari” professionisti mi viene da un interessante studio della dottoressa Francesca Dominici in merito alle attività subacquee nell’antichità. Nello scritto,  che invito a leggere per la ricchezza di informazioni viene evidenziato come nel mondo romano esistesse un rapporto di … vicinanza … con l’acqua. Il nuoto era infatti diffusissimo tra i Romani e le Romane e non solo per diletto come raffigurato in numerosi mosaici.

mosaico nella casa di Menandro, Pompei, con nuotatori e pescatori

Il poeta Ovidio, nelle Tristia [XXXIII, 5-6], accenna a libri che insegnano a nuotare e, nelle Metamorfosi, ne offre addirittura una descrizione come arti nandi praecepit. Nel campo militare, Caio Giulio Cesare, nel De Bello Gallico (IV, 22-25), descrive le difficoltà di un’operazione anfibia, l’invasione delle isole britanniche. Forse non la prima della storia, ma sicuramente l’unica che permise, grazie al genio militare di Cesare di invadere la Britannia. Una storia che vale la pena di essere raccontata. Cesare inizialmente rappresenta la difficoltà dei suoi soldati, appesantiti dalle corazze, a sbarcare sulle spiagge, sottolineando come i Britanni, ovviamente senza armature, potevano muoversi con maggior facilità, attaccando i legionari. Cesare, analizzando le lezioni acquisite, si accorse che i legionari pur essendo superiori nel combattimento terrestre, di fatto avevano poca dimestichezza in quello acquatico. Un fattore da correggere se si voleva combattere in un ambiente lacustre o marino che richiedeva velocità di movimento e armamento più leggero. Possono sembrare delle cose ovvie, ma i soldati dell’esercito americano in Vietnam ebbero lo stesso problema, operando lungo i fiumi. Appesantiti dal loro armamento sprofondavano nel fango ed erano facile preda dei cecchini vietnamiti. 

Cesare sbarca in Britannia. Partendo da Portus Itius ( Porto Izio, dal celtico ‘icht’, canale), l’odierna Boulogne sur mer, posto sul tratto più breve dalle scogliere di Dover, Cesare dovette fronteggiare un mare sconosciuto, soggetto a tempeste furiose e forti correnti e maree, un mare ben diverso dal Mediterraneo. Aveva a disposizione solo due legioni, circa 10000 uomini più vettovaglie, macchine da guerra, e salmerie. per cui dovette approntare 80 navi da carico leggere (actuariae), e 18 navi da carico (le hippogogae, per il trasporto dei cavalli). Era l’estate del 55 a.C.. la notte del 26 agosto, con l’arrivo della bonaccia,   mollò gli ormeggi. Dopo una traversata relativamente tranquilla, la mattina del 27 agosto i Romani giunsero di fronte alle alte scogliere della Britannia.  Vedendo sulle alture le tribù in assetto di battaglia, Cesare decise di non effettuare immediatamente lo sbarco e mise le navi alla fonda. Di fatto le alte carene delle sue navi non gli permettevano di raggiungere direttamente l’arenile (i mezzi da sbarco furono inventati dagli americani durante la seconda guerra mondiale per le operazioni ne Pacifico).  Questa distanza era un handicap notevole in quanto  i legionari romani, appesantiti dalle corazze, affondando nelle acque, non potevano nello stesso tempo muoversi verso riva o proteggersi dai dardi lanciati dai Britanni. Lo stallo fu rotto dall’azione della X legione che, non senza vittime, raggiunse la spiaggia urlando. I  Britanni terrorizzati  arretrarono quel tanto da permettere ai Romani di prendere a spiaggia. Intanto le “artiglierie” romane dalle navi li continuarono a bersagliare con le pesanti baliste seminando il panico. Cosi’ Cesare racconta  l’inizio dell’invasione della Britannia.

Tornando a Cesare, nel pragmatismo romano, questo racconto non era una semplice “notizia di cronaca” ma un’importante lezione acquisita. In qualità di Comandante, Cesare con poche righe sintetiche, metteva le basi per sviluppare un corpo dedicato per le operazioni anfibie. Non a caso, Roma nell’ambito della flotta creò i primi reparti di nuotatori specializzati che attaccavano le navi nemiche in maniera occulta. Di fatto, sebbene esistessero già gruppi di nuotatori tra i Greci e gli Assiri, gli urinatores romani furono la prima unità permanente e professionale di nuotatori subacquei militari di cui esiste un record storico. La prima missione nota fu durante la guerra civile tra Cesare e Cneo Pompeo. Approfittando della notte, i subacquei di Cesare nuotarono dalla spiaggia alle navi Pompeo, tagliarono le cime di ancoraggio e le navi finirono sulla spiaggia dove furono assalite e distrutte dall’esercito di Cesare attestato sulle rive. Con tali premesse fu naturale che in seguito il nuoto rivestisse un ruolo importante anche nell’addestramento militare. Essi subivano un addestramento speciale, diverso da quello dei legionari, esercitandosi anche all’apnea prolungata. Publio Flavio Vegezio, nel quarto libro del De re militari, riporta che i soldati romani si addestravano anche al nuoto nelle acque del Tevere. 

Precursori degli incursori navali ma non solo: la nascita di una corporazione
Ma, al di là del loro uso militare, l’impiego degli urinatores era soprattutto in ambito civile. La presenza di due porti importanti, uno sul Tevere all’interno della città e l’altro ad Ostia, agevolò il sorgere di maestranze specializzate non solo al recupero delle merci cadute in mare ma anche alla costruzione e conservazione di darsene e ponti, ispezioni alle carene delle navi, controllo degli ancoraggi, ovvero di tutte quelle mansioni che, molti secoli dopo, furono assegnate ai palombari portuali. Considerando che tutte le operazioni erano svolte in apnea, le attività erano certamente limitate a piccole profondità (entro i 20 metri), che essi raggiungevano utilizzando dei pesi in piombo o roccia. E’ ragionevole pensare che nei porti fosse necessario poter disporre di un discreto numero di addetti per poter dare continuità al lavoro.  

L’imperatore Claudio, per affermare il dominio di Roma sul “Mare Nostrum”, decise di ampliare la flotta militare e di sviluppare i commerci. Nel 42 d.C. diede avvio alla costruzione di un grande porto marittimo, che fu terminato da Nerone nel 64 d.C.. Il porto si affiancava a quello fluviale di Ostia ed al porto marittimo di Pozzuoli. L’infrastruttura comprendeva un bacino esagonale riparato e protetto per lo scarico delle navi mercantili  necessarie per la sopravvivenza di Roma. Il bacino portuale era ampio 150 ettari e servito da un faro.  Due canali artificiali, le “fossae”, assicuravano il collegamento tra il mare, il porto di Claudio e il porto fluviale di Ostia tiberina, edificato alla foce del Tevere, consentendo alle navi fluviali di risalire il fiume fino all’Urbe. 

Sopravvivere grazie al mare
Roma, come abbiamo scritto in altri articoli, dipendeva per la sua sopravvivenza dalle Provincie dell’Impero che rappresentavano la principale fonte di grano. Era quindi necessario avere un flusso continuo di derrate che dovevano essere ricevute in porti mantenuti sempre in efficienza, collegati a vie fluviali navigabili, con magazzini e banchine sicure. Le strutture portuali crebbero in parallelo alla potenza di Roma. Fu con l’imperatore Claudio che la necessità di affermare il dominio di Roma nel “Mare Nostrum”, portò all’ampliamento della flotta militare e lo sviluppo dei commerci marittimi.

Nel 42 d.C. Claudio diede avvio alla costruzione di un grande porto marittimo che fu terminato da Nerone nel 64 d.C.. Questo tipo di manutenzione era assegnata agli urinatores, precursori dei moderni palombari portuali. Queste maestranze dovevano godere un certo prestigio visto che i “sommozzatori” romani erano riuniti in una corporazione.

Una testimonianza dell’attività di un recupero in mare da parte di questo corpo specialistico è riportato in un bassorilievo che mostra sei sommozzatori che si accingono a tirare a riva, con un’imbracatura, e non con una rete, una statua di Ercole caduta in mare. – da Dominici opera citata

La loro attività doveva avvenire anche a bordo delle navi, Il relitto di una nave romana, affondata a Mandrague, nei pressi della penisola di Giens (Francia), fra il 75 a.C. e il 60 a.C. circa, ritrovato a circa 20 metri di profondità. Il relitto, al momento del ritrovamento recava inequivocabili segni di un intervento umano avvenuto diversi secoli prima, forse subito dopo il drammatico evento. 

Forse la più famosa e significativa testimonianza dell’esistenza del corpus urinatorum si deduce dall’epigrafe di Ostia e da altre due rinvenute, una sempre ad Ostia e l’altra a Roma, nei pressi del porto fluviale. La prima epigrafe è dedicata a Tito Claudio Severo della tribù esquilina e littore decuriale e cita:

“Ti(berio) Claudio Esquil(ina) Severo

decuriali lictori, patrono corporis piscatorumet urinator(um) q̅(uin)q̅(uennali) III eiusdem corporis ob merita eiusquod hic primus statuas duas, una(m) Antonini Aug(usti) domini n̅(ostri), aliam Iul(iae) Augustae dominae nostr(ae) s(ua) p(ecunia) p(osuerit) una cum Claudio Pontiano filio suo eq(uite) Rom(ano) et hoc amplius eidem corpori donaverit ((sestertium)) X̅ mil(ia) n̅(ummum)ut ex usuris eorum quodannis natali suo X̅V̅II̅̅ k(alendas) Febr(uarias)  sportulae viritim dividantur, praesertim cum navigatio scapharum diligentia eius adquisita et confirmata sit, ex decreto ordinis corporis piscatorum et urinatorum totius alv(ei) Tiber(is), quibus ex s(enatus) c(onsulto) coire licet, s(ua) p(ecunia) p(osuerunt)”

Innanzitutto notiamo che, nell’epigrafe di Ostia, gli URINATORES sono distinti dall’altra corporazione PISCATORUM, fatto che evidenza l’importanza data a questa singolare maestranza.  La creazione di una corporazione conferma quindi che si trattasse di un organismo riconosciuto giuridicamente, distinto dagli altri, con diritto di assemblea ed abilitato a ricevere beni per i suoi servizi. Questo viene riportato nell’epigrafe con i citati 10000 sesterzi per aver collocato con merito delle statue.

L’attività della corporazione era disciplinata da specifiche norme elencate nella Lex Rhodia. Essa prevedeva una remunerazione proporzionata al tipo di materiale recuperato ed alla profondità di lavoro. Citazione: “Se ad una profondità di otto cubiti vengano ripescati oro, argento, o un qualsiasi altro bene, il recuperatore ha diritto alla terza parte [del valore]. Se [i beni sono recuperati] da un fondo di quindici cubiti, chi li recupera ha diritto alla metà degli stessi per il rischio [dato] dalla profondità. Per le cose invece che sono state restituite in terra dal mare o trovate sommerse a un cubito, a chi le recupera spetta la decima parte di ciò che è trovato integro [Basilio, LIII, Capita Rhodiorum, pag. 120]. In sintesi, una professione a tutti gli effetti, non molto diversa, se no per le tecnologie disponibili, da quelle degli operatori tecnici subacquei odierni. 

Origine del nome
Ma quale era l’origine del loro curioso nome? Innanzitutto il termine urinatores indicava sia gli addetti che la corporazione che li rappresentava. Marco Tullio Varrone, nel De lingua latina, trattando dei recipienti ovvero nel caso specifico dell’urna (vocabolo latino per indicare una brocca), riportava che: Urnae dictae, quod urinant in aqua haurienda ut urinator. Urinari est mergi in aquam.”  tradotto “Sono dette urnae (brocche) perché come [s’immerge] un sommozzatore, (esse) si immergono nell’acqua per attingerla ne deriva che “Urinari significa immergersi in acqua” (Varrone, V, 27). In altre parole il sostantivo urinator era colui che praticava l’immersione.

Un’altra ipotesi, da una connessione fra il verbo greco οὐρέω (orino) e il relativo sostantivo latino, urina; se vogliamo un collegamento forzato perché farebbe derivare il termine urinator dal liquido fisiologico la cui emissione, come noto ai subacquei, è stimolata dal contatto con l’acqua. In questo senso urinator deriverebbe da una sorta di frase del tipo urinam facere (che produce urina). Sebbene questi subacquei non avessero nessuna protezione contro il freddo, a parte spalmarsi di grasso o di olio, l’ipotesi appare comunque poco probabile.

Esiste invece un’ipotesi etimologica più interessante, basata sulla radice sanscrita vâr (o uâr) del termine, da cui deriva anche ur che indicava lo scorrere dell’acqua. Questa radice si ritrova in molti toponimi. Il primo che mi viene alla mente è quello del Varignano, oggigiorno base dei sommozzatori della Marina Militare, il cui nome lo studioso Cantù faceva derivare da Var, acqua. Nel seno del Varignano si ritrovano i resti di un porto romano con annessa villa che doveva avere sicuramente degli addetti agli ormeggi e alle manutenzioni in acqua, ovvero degli urinatores. Di fatto il prefisso Var è presente in molti toponimi di località sul mare o nei pressi di fiumi e laghi. Basti pensare a Varenna, sul lago di Como, Varese sul fiume Olona, lo stesso fiume Vara, in Liguria.

Inoltre, alcuni popoli del nord Europa si chiamavano Varenghi (Vichinghi), perché provenienti dal mare e una città rumena sul mare, Varna, potrebbe avere la stessa origine. La radice sanscrita var si ritrova anche nel termine varûna che indicava tanto il dio della pioggia quanto l’oceano, per cui gli uomini della pioggia o dell’oceano non potevano essere che gli urinatores, gli uomini del mare. Un’origine decisamente affascinante.

Andrea Mucedola
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2 commenti

  1. Maria Sirago Maria Sirago
    13/03/2021    

    Argomento interessante da approfondire

  2. Salvatore Salvatore
    06/04/2018    

    Molto molto interessante. -LEG VIII AVG- Lugano

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