originalmente pubblicato su ScubaZone n° 10 del luglio 2013
Come spesso abbiamo scritto e commentato l’archeologia e il mestiere dell’archeologo non si devono inquadrare come la ricerca del tesoro perduto. Anche se i mass media tendono ad accreditare questo concetto non esiste nulla di più sbagliato. L’archeologia è scienza esatta e consta nello studio di dati, sia di carattere documentale che derivanti dall’analisi dei reperti, con lo scopo di ricostruire la storia attraverso le informazioni così ottenute. Il passaggio dell’uomo su un territorio ha sempre lasciato, e sempre lascerà, tracce significative. Nel caso dell’Archeologia Subacquea l’indagine si sposta in ambienti potenzialmente ostili come mare, fiumi, laghi, stagni e paludi ma segue le stesse logiche e le stesse metodiche. Oggi la ricerca deve essere progettata e mirata, non basata sulla casualità. Occorre ricostruire il paesaggio antico attraverso mille indicatori e vedere il luogo che vogliamo indagare con gli occhi di chi lo vide nel passato. Individuare le esigenze di coloro che navigarono quel tratto di mare, le loro inclinazioni commerciali, le necessarie risorse al sostentamento degli equipaggi delle imbarcazioni, sono azioni che servono a comprendere i comportamenti dei nostri progenitori. Si potrà così immaginare le loro scelte, delineando e restringendo di conseguenza il campo della ricerca.
Queste sono le domande che l’archeologo si pone. La risposta costituisce una piccola ma indicativa informazione utile alla ricostruzione dell’evento che ha lasciato quella testimonianza in quel luogo.
Come rispondere però a quelle domande?
In archeologia uno strumento fondamentale e utilissimo per definire date e provenienze sono gli studi sulla ceramica. Negli scavi stratigrafici (che smontano uno strato alla volta secondo l’ordine con cui si è formato) le cronologie studiate sulle varie tipologie ceramiche (greca a figure rosse, greca a figure nere, le varie sigillate, le africane, le ceramiche da mensa e da cucina ecc.) consentono di definire il luogo di produzione, il prodotto trasportato, il luogo di destinazione della merce, l’epoca di produzione e d’uso. Anche le anfore, i contenitori per eccellenza dei trasporti marittimi, fino all’avvento di botti in legno e sacchi di juta, ci forniscono queste informazioni. Sappiamo ad esempio che le Dressel 1, destinate al trasporto del vino, nelle loro varianti A, B e C sono state prodotte in centro Italia fra la metà del II sec. a.C. e la metà del I sec. a.C., anche se esistono modelli imitati provenienti dalle regioni della Narbonese, Tarraconese e Betica (ma di queste comunque se ne riconoscono le caratteristiche che le distinguono dalle originali). Così come conosciamo la storia dell’anfora Dressel 20: adibita al trasporto dell’olio dalla zona di produzione della Betica, fu diffusa fra la metà del I sec. d.C. a tutto il III secolo per poi venir soppiantata dalla più leggera Dressel 23. O ancora la conosciutissima Keay LII prodotta in Calabria e Sicilia dal IV al VII secolo d.C., per il trasporto del vino.

Per una quanto più corretta interpretazione del reperto occorre lasciare desalinizzare il pezzo in acqua dolce, frequentemente sostituita, successivamente si procede con una pulizia leggera e l’asportazione di eventuali incrostazioni calcaree, usando una soluzione a base acida con aceto. Dopo l’asciugatura naturale si effettua il disegno tecnico del reperto, che consente di avere la sezione dello stesso, utile al confronto con la bibliografia disponibile per il riconoscimento del reperto nella sua forma completa. Questo ci consente di saperne la classificazione, la provenienza, il prodotto trasportato o l’uso a cui era destinato, e nel caso siamo fortunati anche altre informazioni derivanti da bolli impressi nell’argilla o tituli picti (scritture con vernice apposte all’oggetto dopo la cottura) ad indicare nomi di schiavi che hanno lavorato, prodotto trasportato, figlina che ha fabbricato l’oggetto, nome del proprietario della figlina e dell’imbarcazione deputata al trasporto. Una bella messe di saperi da un semplice “coccio”, vero?
Ivan Lucherini
archeologo professionista
Istruttore subacqueo PSS